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Samarcanda non è quello che credete.

Se vi aspettate la mitica Maracanda di Alessandro Magno o la città dei racconti da Mille e una notte, resterete delusi. E’ una città che deve essere affrontata con il giusto spirito per essere capita. Samarcanda è un gran groviglio non solo dal punto di vista storico, culturale, architettonico e urbanistico, ma anche dal punto di vista linguistico. E’ una città in prevalenza tagika che parla soprattutto tagiko ma la lingua ufficiale e l’uzbeko e, come se non bastasse, la lunga dominazione russa ha portato il cirillico e il russo, a cui si aggiungono le minoranze ebree, coreane, rom e ancora altre arrivate con le deportazioni sovietiche. Tutto questo vive nei suoi quartieri! Se la osservate dall’alto ve ne renderete conto: nella parte russa quartieri squadrati, strade dritte, grandi parchi; nella parte tagika una medina di case e stradine.

Samarcanda è una città che si aggrappa a ciò che rimane del suo glorioso passato con tutte le sue forze, ricorrendo a selvagge ricostruzioni e arditi restauri. Ma della Samarcanda antica e timuride resta poco o niente, devastata dal passaggio di Gengis Khan e da secoli di storia travagliata. Il Registan, la necropoli Shah-i-Zinda, l’Afrosiob, la moschea di Bibi-Khanum, l’osservatorio di Mirzo Ulugbek, il mausoleo di Tamerlano Gur-e-Amir… Tino Mantarro nel suo splendido Nostalgistan la definisce una specie di Disneyland. Sono da vedere sia ben inteso, riescono comunque a sorprenderti, ma intorno ad essi cresce una città ben diversa. O forse sarebbe meglio dire più città. Quella imperiale degli zar, quella sovietica e quella moderna, fatta della nuova versione di mnogoetazhniki, di parchi e prati verdi e rigogliosi che rendono la città una specie di oasi in mezzo al deserto, dei quartieri popolari. E anche questa deve essere accettata. Anzi, in realtà è l’ulteriore dimostrazione che a Samarcanda c’è molto di più da vedere e che basta allontanarsi dai sentieri più battuti.

Se volete farvi una buona idea di cosa sia la Samarcanda odierna vi consiglio questo libro Samarcanda. Storie di una città dal 1975 a oggi di Marco Buttino.

Quindi facciamo un po’ il punto della situazione su cosa c’è da vedere a Samarcanda.

Seguitemi!

LA SAMARCANDA ANTICA

Il Registan

Il nome deriva dal persiano e significa “luogo di sabbia” o “deserto”. Era una piazza pubblica, la più importante della Samarcanda timuride. Qui furono costruite tre madrase, le scuole dove si studia il Corano: Ulugbek, Sher-Dor e Tilya-Kori. Oggi se arrivate in questa piazza di sera, entro le 22, assisterete ad un magico gioco di luci. Questa è la cartolina della città e, forse, di tutta l’Asia Centrale. Di giorno le maioliche scintillano sulle facciate delle tre madrase dai minareti tutti storti. Ma all’inizio del Novecento il loro aspetto era ben diverso, come documentato da artisti ricercatori che hanno viaggiato in lungo e largo in Asia Centrale nel XIX e XX secolo. Le foto suggestive custodite nella madrasa di Tilya Kori mostrano facciate scrostate, minareti distrutti e le bancarelle che affollavano la piazza dove oggi si accalcano solo i turisti. In quelle che erano le celle degli studenti ci sono negozietti di souvenir, tappeti e artigianato.

La madrasa Ulugbek fu costruita dal nipote di Tamerlano ed è stata una delle migliori università dell’Oriente islamico nel secolo XV. La madrasa Sher-Dor presenta una particolarità sulla sua facciata, la rappresentazione di animali: due tigri e altri due non ben identificati animali bianchi (forse due daini?). Poiché nell’Islam è vietato raffigurare esseri viventi, questi animali sembrano reali solo in apparenza. Osservandoli bene ci si accorge che sono fantastici. Inoltre presentano dei tagli verdi sul corpo, il che indica che l’artista ha voluto rappresentarli come se non fossero vivi. Solo Allah può dare la vita, l’uomo può limitarsi alla rappresentazione di qualcosa di fantastico o morto. La madrasa Tilya Kori ha una moschea con una strabiliante cupola d’oro e blu. Anche se evidentemente è stata rifatta l’effetto è mozzafiato.

La necropoli Shah-i-Zinda

Questa necropoli è una specie di cimitero monumentale. Il nome è estremamente evocativo e significa “il re vivente”. Il complesso si compone di tre gruppi di strutture: inferiore, medio e superiore collegate tra loro da quattro arcate chiamate chartak. Le tre parti risalgono a epoche differenti che vanno dal IX al XIV e al XIX secolo. Qui sono sepolti parenti di Tamerlano, membri del clero e dell’aristocrazia militare. Si dice anche che qui sia sepolto Kusam Ibn Abbas, il cugino del profeta Maometto e questo rende la necropoli meta di pellegrinaggio.

L’Afrosiob

Il sito archeologico di Afrosiob si trova nella parte nord dell’odierna Samarcanda e fa riferimento alla città di epoca Sogdiana. Qui non troverete palazzi e maioliche, ma solo le rovine della cittadella e delle mura esterne. Tutto ciò che è riaffiorato durante gli scavi di epoca sovietica negli anni ’60 e ’70 è custodito nell’interessante museo che si trova all’ingresso dell’area archeologica.

La fase più antica della città risale al VII-VI sec a. C. quando la città era in mano alla dinastia Eksid. A questo periodo appartengono gli affreschi conservati nell’adiacente museo, forse rappresentazione di un’incoronazione, forse una celebrazione religiosa. La storia di questi affreschi è spiegata molto bene in un video che si può guardare all’interno del museo. Questa potrebbe essere la bella Maracanda che affascinò Alessandro Magno durante la sua spedizione nella Sogd nel 329-327 a. C. La città sopravvisse per molti secoli, prima come parte del regno greco-battriano, poi parte degli imperi turco e cinese e infine conquistata dagli Arabi, fino alla distruzione di Gengis Khan quando venne abbandonata definitivamente. La sede della nuova Samarcanda venne individuata da Tamerlano spostata di qualche chilometro.

La moschea di Bibi-Khanum

Situata proprio accanto al Syob bazar, quando vi ritrovate davanti l’imponente portale di questa moschea vi sentirete piccolissimi. Fu costruita al termine della campagna indiana del 1399 da Tamerlano con l’intento di farne la più grande moschea dell’Oriente islamico. La costruzione piuttosto veloce vide la partecipazione di artisti locali, ma anche provenienti da Azerbaigian, Persia, Khorasan e India. Per darvi un’idea dell’opera mastodontica, c’è la testimonianza di un nobile europeo castigliano, Ruy González de Clavijo, che racconta dell’utilizzo di 90 elefanti per trasportare le pietre preziose necessarie alla sua costruzione. Crollò definitivamente durante il terremoto del 1897. Quella che vediamo oggi è in gran parte un edificio di recente ricostruzione. Circolano molte leggende sulla moschea, come quella di un bacio galeotto tra l’architetto e Saray Mulk Khanym o Bibi Khanum, la moglie preferita di Tamerlano, a cui tra le varie ipotesi, potrebbe essere dedicata la moschea.

L’osservatorio di Mirzo Ulugbek

Ulugbek oltre ad essere principe di Samarcanda e nipote di Tamerlano era un eccezionale astronomo. La madrasa da lui fatta costruire sulla piazza del Registan era un importante centro astronomico. Per coadiuvare la ricerca astronomica della madrasa, Ulugbek fece costruire un osservatorioconsiderato ancora oggi uno dei migliori dell’Islam medievale. Per darvi un’idea delle incredibili doti di astronomo di Ulugbek pensate che ha stabilito la durata dell’anno solare con un errore di pochi SECONDI rispetto all’attuale computo! Inoltre è riuscito a determinare l’inclinazione assiale della terra in 23°52, valore tuttora confermato. Ulugbek venne assassinato da fanatici religiosi nel 1449 e il suo osservatorio venne distrutto con lui. Per molto tempo la sua posizione rimase sconosciuta. Fu riscoperto solo nel 1908 dall’archeologo russo V.L. Vyatkin grazie ad un documento del XVII secolo e poi grazie agli archeologi sovietici fu fatto il possibile per preservare ciò che ne restava. Oggi si conserva il grande sestante protetto da una copertura a tunnel e nel piccolo museo si possono scoprire molti interessanti dettagli.

LA SAMARCANDA RUSSA E SOVIETICA

Vasilij Vereshchagin è famoso per i suoi quadri che documentano la conquista del Turkestan da parte dell’impero russo. Partecipò alle campagne militari, si ritrovò coinvolto nell’assedio della fortezza russa di Samarcanda, viaggiò in lungo e largo in Asia Centrale per documentare le usanze degli abitanti e i paesaggi. Le tele che fanno parte della sua grande serie di dipinti sul Turkestan mostrano con crudezza quegli eventi storici e le popolazioni locali che incontrò. Una straordinaria testimonianza diretta!

Quella russa e sovietica sono due parti della Samarcanda moderna che non possono essere escluse dalla visita della città se davvero si vuole apprezzarla appieno. Vi ritroverete catapultati in tutt’altre atmosfere! Il Boulevard Abramov, la Facoltà di Scienze Naturali dell’Università Statale, un grazioso edificio color pastello in stile russo ex sede di una banca cinese, bassi edifici in mattoni, la Cattedrale di Sant’Alessio e quella cattolica di Giovanni Battista, ampi viali alberati con immensi platani e aiuole verdissime.

Un’esperienza da non perdere è la visita alla Dom Filatova, sede dell’antica vineria Khovrenko. Vi starete chiedendo… ma il vino? In Uzbekistan? La risposta è sì, l’Uzbekistan è uno dei maggiori produttori di uva dell’Asia Centrale e la tradizione vinicola è antichissima portata qui probabilmente ai tempi degli arabi. La cantina Khovrenko è stata fondata da Dmitriy Filatov, di cui conserva il nome, nel 1868 e già allora ottenne importanti riconoscimenti in Europa. L’enologo e chimico russo Michael Khovrenko rilevò l’azienda e diede nuovo impulso alla produzione. Oggi nel museo si conservano ancora bottiglie delle annate più importanti e si possono fare tour guidati e degustazioni.

Se invece siete appassionati del periodo sovietico basta fare un giro fuori dal centro per imbattersi in mosaici, khrushchyovki che sostituirono i tradizionali mahalla (grandi case con una corte centrale dove vivevano intere famiglie tutte insieme), fabbriche ed edifici del periodo.

LA SAMARCANDA DIETRO I MURI

Samarcanda è una città multietnica. Qui convivono uzbeki, tagiki, kirgisi, russi, ebrei, lyuli, coreani e altri. Un vero e proprio crocevia di popoli. Ma per trovarla tutta questa umanità vera bisogna allontanarsi dai luoghi cartolina tirati a lucido e assediati dai turisti e addentrarsi nella città moderna, ma soprattutto al di là di quei muri costruiti per nascondere la parte più povera della popolazione. In una zona che si estende tra il Registan e Sha-i-Zinda e la moschea Bibi Khanum si trova il quartiere ebraico. La presenza di ebrei provenienti da Bukhara a Samarcanda ha una storia molto antica. Le prime documentazioni sulla comparsa di questi ebrei sono rare ma risalgono al XII secolo e la loro storia è davvero interessante. Oggi questo antico quartiere è un melting pot etnico.

Un’altra comunità misteriosa e antica è quella dei Lyuli. Purtroppo, oggi vive discriminata e ai margini della società uzbeka, che vede in loro solo ladri e accattoni. Questi rom dell’Asia centrale, sono imparentati con i Rom e i Sinti dell’Europa e del Medio Oriente, ma potrebbero essere originari dell’India. Il poeta medievale persiano Ferdowsi parla nello Shahnameh di musicisti indiani inviati come dono al re persiano Bahram Gur dal re indiano Sangulu. Ma non ci sono evidenze storiche a favore di questa tesi. Di certo non sono sempre stati considerati dei reietti in Asia Centrale.

Oggi fanno parte di una comunità isolata e preservano un sistema di caste. La maggior parte della popolazione uzbeka li considera sporchi, ladri, stregoni e incuranti delle leggi. Quello della loro integrazione è un problema molto grosso in Uzbekistan. Efficaci progetti di integrazione furono sviluppati in epoca sovietica quando si cercò di sedentarizzarli, inserirli nel mondo del lavoro e alfabetizzare i bambini, furono create le prime attorie collettive tsygane (цыганы – Tsygani era ed è il termine con cui vengono indicati in russo). Oggi non esistono politiche di questo tipo sponsorizzate dallo stato nei confronti della comunità Lyuli. Non ci sono progetti che lavorino sulla destigmatizzazione, sulla sensibilizzazione, sull’inclusione o sull’istruzione. Ci sono però progetti a livello europeo che possono essere un esempio per la realtà Lyuli in Uzbekistan.

FUORI SAMARCANDA

La cartiera

“La migliore carta del mondo viene prodotta a Samarcanda” disse il principe Babur discendente di Tamerlano e fondatore della dinastia Moghul. Fin dall’antichità Samarcanda era famosa per la sua carta. Una carta speciale fatta con il gelso che cresceva rigoglioso in tutta la regione. A pochi km dalla città la fabbrica di carta Meros, fondata dai fratelli Mukhtarov a Koni Ghil, è ancora oggi un’eccellenza del territorio. Costruita con immensi sacrifici, questa cartiera ha fatto rivivere il metodo antico di produzione della carta di seta. Un lavoro artigianale che utilizza materie prime naturali di qualità e che dà vita a una carta che può durare per secoli.

Il posto è un piccolo paradiso di alberi, piccoli fabbricati in mattoni di fango, ruscelli e un mulino in legno come ce n’erano in gran quantità intorno a Samarcanda. Qui i visitatori possono assistere a tutto il processo di produzione, acquistare souvenir fatti interamente di questa preziosa carta, rilassarsi e rifocillarsi. Il suo instancabile fondatore Zarif Mukhtarov è un vulcano di idee e ha intenzione di continuare espandere questo piccolo paradiso con nuovi laboratori, programmi culturali e workshop.

La bellissima arte decorativa russa è variopinta e antica. Il legno è un materiale facilmente accessibile e per questo motivo molte delle tradizioni pittoriche popolari si trovano proprio su questo supporto. Le isbà erano spesso decorate con intrecci di fiori e uccelli e motivi decorativi astratti, sia internamente che esternamente. Ma non solo le case venivano dipinte anche mobili, stoviglie cassepanche, scatole, slitte e i magnifici filatoi. Gli stili tradizionali della pittura popolare russa sono tipici ognuno di una regione precisa.

Vediamo alcuni tra i più famosi, così avrete qualche spunto per un souvenir originale (leggete qui per altri interessanti suggerimenti)

Nero, oro, rosso e fiori: Khokhloma

Gli elementi tradizionali sono le bacche rosse e succose di sorbo e fragola, fiori e rami, a volte uccelli, pesci e animali. Il tutto dipinto in oro, rosso, verde su sfondo nero. ХОХЛОМÁ nasce nella seconda metà del XVII secolo in villaggi situati sulla riva sinistra del Volga, nella provincia di Nizhny Novgorod. I prodotti lavorati con questa decorazione venivano trasportati e venduti nel grande centro commerciale di Khokhloma e da qui in tutta la Russia, in Asia e nell’Europa occidentale.

La si può trovare sugli oggetti più impensabili. Originariamente era una decorazione utilizzata per abbellire stoviglie e oggetti di artigianato in legno, ora khokhloma è utilizzata anche per aerografare auto e aerei, decorare lattine, facciate di edifici, oggetti artistici.

Il magnifico nord nella pittura Mezen

Mezen è originaria della regione di Archangelsk. Protagonisti di questo decoro sono animali (in particolare cavalli e renne) e piante stilizzati, a cui si aggiungevano ornamenti astratti. Hanno uno stile un po’ preistorico, e infatti somigliano ai petroglifi della Carelia. I colori tipici sono un bel rosso vivace, ottenuto utilizzando argilla rossa e il nero ricavato dalla fuliggine mescolato con resina di larice.

Ogni elemento e ricciolo del disegno aveva un significato specifico ed era disposto in modo speciale e ovviamente rifletteva la vita delle persone del Nord che lo avevano creato. Una menzione particolare la meritano i filatoi. I famosi “prjalka” sono una vera e propria opera d’arte, nonostante si tratti di un oggetto di uso comune, ancora oggi sono considerati un oggetto da collezione.

Quelli del Nord erano realizzati in un pezzo unico di legno massello che comprendeva radice e fusto dell’albero, generalmente pioppo, abete rosso o betulla. Quelli della regione del Volga invece erano compositi e finito il lavoro si potevano smontare ed usare come ornamento appeso alle pareti. I filatoi erano un pezzo molto importante della dote di una ragazza, erano costosi e venivano trattati con grande cura.

L’eleganza del blu e bianco

Ghzel è un tipo di decorazione su ceramica, elegante e raffinata, con disegni blu cobalto che spiccano su una finissima ceramica bianca. Prende il nome da un piccolo villaggio non lontano da Mosca famoso fin dai tempi di Ivan Kalità per essere ricco di argilla di alta qualità, tanto che fu usata come materiale per la fabbricazione di nuovi recipienti farmaceutici e alchemici. Ricorda un po’ la nostra ceramica di Faenza o le famose porcellane cinesi.

L’abilità dei maestri di questo territorio è ormai nota in tutto il mondo, tanto che il fascino di questa tecnica pittorica ha contagiato anche famosi stilisti come Valentino, Cavalli o artisti eccentrici come Lady Gaga. Spesso si trovano prodotti in maiolica venduti come porcellana di Gzhel. La vera porcellana è leggera, sottile, brilla attraverso la luce, trattiene il calore, emette un suono squillante quando viene colpita leggermente. Anche dai disegni si può capire se si tratta di un lavoro fatto a mano o stampato. Sul fondo dell’originale ci sarà sicuramente una marcatura, il timbro GFZ, le iniziali dell’autore.

Bouquet di fiori

La pittura di Zhòstovo è originaria della regione di Mosca. Qui, un gruppetto di villaggi divenne popolare all’inizio del XIX secolo per la presenza di numerosi laboratori artigianali che producevano oggetti in lacca di cartapesta. Quella della lacca su cartapesta è una delle tradizioni artistiche più originali e ricca dell’artigianato russo sviluppatasi all’alba del XIX secolo e divenuta sempre più rinomata, non solo in Russia. Molti di questi capolavori sono conservati al Museo Russo di San Pietroburgo, ecco perché è un peccato che spesso questo museo venga trascurato in favore dell’Ermitage (che è imperdibile, per carità!).

Verso la fine del 1700 un commerciante moscovita che produceva cartapesta, Piotr Korobov, affascinato dalle tabacchiere laccate tedesche ammirate durante un viaggio in Germania, decise di importare la tecnica in Russia dando vita alle lacche di Fedoskino. La pittura di Zhostovo e dei villaggi adiacenti ha avuto origine dalla miniatura di Fedoskino e dalla pittura artistica in lacca di vassoi di metallo, esistente nella città di Nizhny Tagil. Gli eleganti vassoi neri con splendide decorazioni floreali colorate ne sono l’espressione artistica più tipica.

Fiori su sfondo nero

Protagonista di questa tecnica decorativa è il bouquet di fiori: rose, peonie, margherite, tulipani, fiori di campo. I fiori possono essere disposti in ghirlande attorno al perimetro del vassoio, raccolti in mazzi di tre o cinque fiori, raffigurati in cestini, spesso sono accompagnati da frutti, bacche o uccelli. Vengono utilizzati colori ad olio su trementina, applicati con pennelli morbidi. La verniciatura multistrato viene eseguita in più fasi, ognuna delle quali è accompagnata da una lunga asciugatura.

L’esecuzione della composizione non è né dal vero né segue modelli. L’artista improvvisa, con la propria fantasia e tecniche compositive, quindi non ci saranno mai due vassoi identici. Gli artisti non avevano limitazioni alla loro creatività e potevano usare i colori che preferivano. Il colore del fondo generalmente era il nero, ma potevano essere utilizzati anche il rosso, il verde, il blu e l’avorio.  Oltre ai fiori inizialmente erano comuni anche soggetti come i paesaggi, la trojka trainata da cavalli a cui si sono aggiunti anche temo tratti dalle fiabe e scene di vita quotidiana. Se andate sul sito ufficiale dell’Atelier di Zhostovo vi potete fare un’idea degli splendidi lavori che vengono realizzati ancora oggi.  

La pittura “della Dvina settentrionale”

Severodvinskaja significa “della Dvina settentrionale”, un fiume del Nord che a partire dal XVI sec fu una grande arteria di trasporto in Russia. Fiorirono le città e i monasteri che si trovavano lungo il suo corso divenendo grandi centri commerciali e culturali: Kargopol, Belozersk, Solovetsky, Kirillo-Belozersky. La pittura popolare, nata sulle rive dei fiumi Dvina settentrionale e Mezen, è un’arte distintiva.

Questa pittura tradizionale trasformò oggetti della vita contadina in vere e proprie opere d’arte. Affonda le sue radici nell’antica arte russa: la pittura monumentale, le icone, le miniature. Fa uso di simboli pagani come l’albero della vita, l’uccello Siri e il grifone, ma anche ramoscelli, bacche, fiori, uccelli, cavalli e motivi geometrici.

Ogni elemento ha il suo significato, come l’albero simbolo della vita stessa o il trilistnik (trifoglio) simbolo della trinità come filosofia di vita (nascita-vita-morte, terra-acqua-aria). Si possono individuare tipologie diverse in questo stile decorativo. In alcune i motivi più ricorrenti sono Sirin e i cavalli, altre sono dominate da ornamenti floreali e viticci, oppure da scene di vita quotidiana, rituali e feste dipinti in uno stile che ricorda le iconostasi. I colori tipici su uno sfondo bianco sono il rosso, il giallo e il verde, il nero e l’ocra.

Ci sono molti modi per studiare la cultura di un popolo, uno di questi è l’artigianato. Acquistare uno di questi oggetti da un artigiano locale è un modo per preservare le tradizioni locali e contribuire alla loro sopravvivenza.

L’alfabeto cirillico non è così complicato come può sembrare, con un po’ di pratica lo si impara abbastanza facilmente. E’ composto da 21 consonanti, 10 vocali e 2 simboli. Con un pò di pratica nel giro di un paio di giorni si impara, soprattutto se avete fatto studi classici.

Ma come è nato questo алфавит? Due fratelli di Tessalonica, figli di commercianti che intrattenevano relazioni con le popolazioni bulgare della Macedonia, vengono scelti dall’imperatore bizantino Michele III e dal Patriarca come missionari presso i popoli slavi, per la loro famigliarità con la lingua del posto.

L’alfabeto glagolitico

Si chiamavano Costantino e Metodio. Durante la loro missione introdussero la scrittura nel mondo slavo, mettendo a disposizione di quella popolazione i testi sacri dei cristiani. Inventarono un alfabeto che venne chiamato glagolitico, da Glagòl (Глагол)= verbo. I suoni della parlata slava vennero trascritti utilizzando un pout pourri di lettere, in parte prendendo in prestito dal greco, in parte spigolando in altri alfabeti – copto e samaritano – ma anche inventando di sana pianta lettere per quei suoni, propri dello slavo, che non avevano corrispondenti in altre lingue.

Dallo slavo comune al moderno alfabeto cirillico

La lingua che tradussero in scrittura era probabilmente il bulgaro della Macedonia. Ma questa lingua aveva una stretta parentela con le altre slave, tutte derivate dallo “slavo comune”, parlato prima che massicce migrazioni di popoli spezzassero l’unità degli Slavi. Per questo motivo i testi tradotti da Costantino e Metodio ebbero così ampia diffusione. Man mano che venivano convertite al cristianesimo le popolazioni slave trovavano in una lingua facilmente comprensibile tutti i testi della loro fede. In questo modo manoscritti giunsero fino a Kiev ed ebbero un ruolo importantissimo nella cristianizzazione della Russia.

Ma perché allora l’alfabeto russo si chiama “cirillico”?

Costantino quando prese i voti cambiò il suo nome in Cirillo e con questo nome iniziò la sua opera missionaria. L’alfabeto che aveva creato con il fratello Metodio (chiamato come abbiamo visto glagolitico) non portava il suo nome e nel corso del tempo subì varie modifiche a seconda della regione. Forse fu uno dei suoi seguaci, Clemente di Ocrida, che elaborò una nuova scrittura basata sull’alfabeto greco e su quello glagolitico e la chiamò cirillico in onore del Santo.

Come tutte le cose vive, le lingue evolvono e così la scrittura. Anche quell’alfabeto cirillico delle origini nel corso dei secoli ha subito numerose trasformazioni, molte lettere sono sparite e altre si sono semplificate nella grafia. Indovinate chi poteva mai aver deciso la prima sostanziale riforma della lingua e dell’alfabeto russo? Proprio lui…il rivoluzionario Pietro il Grande. Ridisegnò molte lettere e introdusse i numeri arabi. L’alfabeto russo a 33 lettere come lo conosciamo oggi invece fu opera dei bolscevichi attraverso la riforma del 1917.

Dopo tutto questo spiegone vi presento le lettere dell’alfabeto cirillico

Su alcune ci sono delle storie interessanti. Per comodità utilizzo solo lo stampatello maiuscolo (vi risparmio lo stampatello minuscolo, ma soprattutto il CORSIVO). Per comodità le ho suddivise in vari gruppi:

Quelle identiche al latino per pronuncia e scrittura

A (a)

Е (je) Identica alla E dell’alfabeto latino. Nell’antico slavo ecclesiastico era rappresentata da questo strano segno Ѥ.

Ma in questo gruppo si trova anche la Ё (jo)… Eh si fa presto a dire jo! Il problema è che le dieresi non vengono più indicate, le troverete stampate solo nei libri per bambini e libri di testo per studenti stranieri. E quindi come fai a sapere se ti trovi di fronte a je o a jo? Niente.. lo devi sapere! La storia di questa lettera è travagliata. In circa duecento anni si sono susseguite interminabili discussioni sul suo utilizzo. Fin dalla prima apparizione il suo uso è rimasto facoltativo, ma questo ha causato problemi (che continuano ancora oggi) non solo agli stranieri ma anche ai russi.

Nomi e cognomi pronunciati in maniera errata, confusione in parole scritte nello stesso modo ma che cambiano completamente di significato a seconda della pronuncia (come “поем” [“pojèm”, “mangeremo”] – “поём” [“pajòm”, “cantiamo”]), parole storpiate (anche dai russi) come свёклa (‘svjòkla’, la ‘barbabietola rossa’) spesso storpiata in ‘svieklà’. Tuttora non ci sono disposizioni ufficiali e quindi il problema rimane. Per la serie.. cose che possono succedere solo in Russia!

Nella trascrizione inglese è stato fatto l’errore comune di trascrivere la desinenza -ёв con -ev, formando trascrizioni come Khrushchev e Gorbachev. La trascrizione italiana si è attenuta in questo caso più alla pronuncia reale, trascrivendo in Gorbaciov (traslitterazione scientifica: Gorbačëv) o Krusciov (traslitterazione scientifica Chruščëv), è però possibile trovare Gorbacev o Khruscev.

K (ka) Di chiara derivazione greca anche se ci sono somiglianze con la lettera ebraica kof o nell’alfabeto semitico.

O (o) Identica alla O latina. Il problema della o in russo è che si legge o solo quando è tonica, cioè accentata. Diversamente diventa una a. Ad esempio молоко=latte ha solo l’ultima o accentata e dunque si pronuncia malakò. Ma ovviamente come nel caso della Ё c’è il problema che l’accento non è indicato e quindi bisogna sapere dove cade nella parola.

Т (te) L’origine della lettera cirillica è la lettera greca tau (Τ, τ). Nell’alfabeto glagolitico potrebbe derivare o dalla forma minuscola corsiva della lettera tau, o alla lettera semitica tav (ת). La stessa tau greca potrebbe avere forme fenicie.

М (em)

Quelle identiche al latino per scrittura ma si pronunciano diversamente

В (ve) Questa lettera è facilmente confondibile con la B latina, solo che in russo è invece una V. Deriva dal greco.

Н (en) Sembra una acca ma si pronuncia N

Р (er) Attenzione a non confonderla con la nostra P latina. In russo è una R. Deriva dalla greca ро (Ρ). Nella scrittura corsiva, la lettera p era spesso scritta orizzontalmente. In combinazione con la lettera y diventava l’abbreviazione della parola “rublo”.

fonte wikipedia

C (es) Anche questa è facilmente confondibile con la lettera latina C, ma in russo è una S. L’origine della lettera cirillica è il sigma greco nella versione bizantina a forma di C “sigma lunata” (Ϲ).

Le lettere dell’alfabeto greco

У (u) Si pronuncia U e non i come siamo abituati a pronunciarla in inglese.

X (kha) Derivata dalla lettera greca chi (Χ).

Г (ghe) Deriva chiaramente dalla lettera greca gamma.

П (pe) Anche questa lettera l’avrete certamente già incontrata. Si tratta del famoso Pi greco π, somiglia anche al semitico ne (ף).

Ф (ef) Deriva dalla greca phi (Φ, φ). Negli alfabeti antichi, è chiamata “frt” O “fert” che potrebbe lasciare intendere una derivazione onomatopeica, come il suono prodotto dai cavalli: “F-rrr”. Nel russo moderno è utilizzata spesso per i prestiti da altre lingue.

Д (de) La lettera deriva chiaramente dalla delta greca Δ ma nella forma cirillica si distingue per quei due piedini negli angoli in basso. La particolarità di questa lettera è che nel corsivo è completamente diversa. Nel corsivo maiuscolo è uguale alla nostra D, nel corsivo minuscolo è una g. Evviva la confusione… tre simboli per una sola lettera!

Л (el) Sicuramente avrete già incontrato nella vostra vita la lettera Λ, da cui deriva la Л.

E veniamo a quelle strane davvero…

Б (be) L’antico nome di questa lettera, di derivazione greca era buki. La sua forma nel cirillico deriva da una forma di beta greca (β), ma la forma nell’antico glagolitico non è chiaro da dove derivi, forse dalla scrittura semitica.

Ж (zhe) Chiamata anche il ragnetto o la ranocchia che nuota. Non è chiaro da dove derivi questa lettera, le teorie sono diverse. Sicuramente non ha un analogo nell’alfabeto greco o latino. Potrebbe derivare dalla glagolitica živěte Ⰶ, ma le radici di questa lettera sono confuse e lasciano spazio a varie interpretazioni: scrittura copta, dal segno “Janja” (Ϫ), monogramma del nome di Gesù Cristo, l’antica runa Yera.

З (ze come s di rosa) Nello slavo antico ed ecclesiastico il suo nome era земля=terra.

И e Й (i breve) (i) Le origini di questa lettera potrebbero risalire all’alfabeto fenicio. La Het sarebbe passata attraverso il greco Η e il latino H. La stanghetta col tempo ruotò in senso antiorario. I breve (i kratkoe) è in realtà una consonante che viene utilizzata solo in accompagnamento con una vocale.

Ц (tse) La provenienza è dalla lettera ebraica tsade (ץ ,צ), la si trovava anche nel glagolitico. Restano aperte varie altre derivazioni ad esempio anche nella lettera etiope ሃ o in copto lettera ϥ. E’ pronunciata come il suono ts.  La si può incontrare in parole dove sostituisce la c latina come цирк (circo).

Ч (Che) Deriva dalla fenicia tsade. Il suono è quello della C latina.

Ш e Щ (sha) Anche per questa lettera le radici affondano nel mistero. Lettere simili erano presenti in molti altri alfabeti quando venne ideato il glagolitico (da cui è stata assunta). La ritroviamo nella lettera etiope ሠ (saut), in ebraico ש ( shin), nella lettera copta ϣ (shai). Probabilmente risalgono alla lettera fenicia Shin (lettera fenicia “Sin”). Alcuni studiosi la fanno risalire addirittura ad un geroglifico egizio che denota un campo allagato:

Щ modifica leggermente il suono di Ш rendendolo più “forte”.

Ы (i) Su questa lettera ci sarebbe da farci un trattato, anche solo per la sua pronuncia che somiglia ad una i ma non è una i. E’ un suono che nell’italiano proprio non esiste, che spesso finisce per essere pronunciata come una i (che non si può sentire!) ma è un suono a metà tra una i e una u. Nella lingua antica era chiamata Jeri.

Э (e) Si pronuncia come una nostra E aperta. Non sono molte le parole che contengono questa lettera. Potrebbe derivare da un’antica lettera greca ϡ (sampi) o dall’ebraico.

Ю (ju) e Я (ja) Anticamente erano una combinazione di due lettere greche che si sono fuse.

I simboli

Segno debole ь e segno forte Ъ non sono lettere ma soltanto due segni che definiscono la pronuncia della consonante che seguono. Fanno parte di quei casi in cui tiri i dadi e speri che sia giusto dove li hai piazzati (un po’ come gli accenti). Con la pratica impari dove sono in molte parole, ma ti rimane sempre un dubbio!

Ь ammorbidimento della consonante precedente.

Ъ ha una storia particolare. Nella Russia zarista veniva aggiunto alla fine di tutte quelle parole che terminavano con una consonante. Журнал (rivista) si scriveva журналъ. Con la riforma dopo la Rivoluzione questa regola venne abolita e oggi viene utilizzato per separare le lettere in alcune parole. Viene posto tra prefisso e radice nel caso in cui la radice della parola inizi con una: E, Ё, Ю, Я.

Un simbolo per una testata giornalistica

Spesso le testate giornalistiche vengono identificate con delle sigle. Ad esempio il New York Time, è NYT. La testata Kommersant ha fatto di questo simbolo il suo acronimo. Tant’è che ancora oggi capita spesso di leggere: “come scrive Ъ” per riferirsi ad un articolo di Kommersant. In origine il segno forte si trovava alla fine del nome: KommersantЪ.

I russi hanno la fissa dei vezzeggiativi, dei diminutivi e di tutto ciò che si può trasformare in una forma affettuosa. Vodka è una forma vezzeggiativa che significa “piccola acqua” o “acquetta”, da вода (vadà) acqua + il suffisso ka.

La vodka è, nell’immaginario mainstream, la bevanda per eccellenza della Russia. In realtà non è che proprio tutti i russi siano degli ubriaconi o che bevano solo ed esclusivamente vodka. Ad esempio durante i festeggiamenti fa spesso coppia con il russkoe shampanskoe (imitazione russa del nostro prosecco).  Normalmente la bevanda preferita dei russi – come vi ho spiegato qui – non è alcolica ma è il , che viene bevuto a qualsiasi ora del giorno e in ogni casa certamente non manca un bollitore.

Ma tornando alla fama dei russi grandi bevitori, la “Cornaca degli anni passati” del monaco Nestore riporta queste parole del Principe Vladimir: “Bere è la gioia della Rus”. Siamo nel 988 d. C. e il principe di Kiev deve assolutamente scegliere una religione monoteista perché pagani no, proprio non si può restare! Così riceve le delegazioni di Islam, latini, ebrei e bizantini. Tutti vengono scartati tranne la fede di Bisanzio per motivazioni su cui qui non mi dilungherò. Rifiuta l’Islam a causa del divieto di bere alcol.

Ma si dice Wodka o Vodka?

E qui si apre la faida tra Russia e Polonia! Per farla breve la documentazione storica pare dar ragione ai polacchi come inventori, ma i primi a farne un business e un monopolio furono la nobiltà russa e gli Zar. Resta il fatto che i distillati a base di cereali sono tipici di tutta la fascia europea in cui non è possibile la coltivazione della vite. Le origini sono contadine e avvolte nel mistero. La tradizione popolare ci ha tramandato la preparazione di un fermentato di patate e successivamente di cereali, che poi veniva distillato con alambicchi rudimentali. Ancora oggi esistono questi preparati casalinghi ‘samogon’ e ‘polugar’.

Prima in Europa, poi nel mondo.

Fino alla Rivoluzione del 1917 la vodka era sconosciuta agli europei (tranne Napoleone e i suoi soldati che durante la Campagna di Russia l’avevano già conosciuta nel tentativo di non morire assiderati!). Anche in questo caso protagonisti saranno i nobili che fuggirono dalla Rivoluzione in Europa. Uno dei più famosi distillatori Piotr Smirnov proverà a farla apprezzare ai parigini, che però abituati ai profumati cognac la “snobbarono”. Il successo arriverà in America dove nascerà il famoso “Moscow Mule”. Ma la vodka sarà sempre considerata simbolo della classe operaia russa e della “cortina di ferro”. Fino a quando James Bond nel film “Casino Royale” non inventerà il Vesper Martini. Da quel momento i più famosi barman di America ed Europa creeranno decine di cocktail con il distillato, rendendolo famoso e affrancandolo dalla nomea popolare e contadina.

Ma nel frattempo in Russia… c’erano le ryumochnaya!

Più che un bar potremmo definire la ryumochnaya una ‘shotteria’. Ryumka infatti è il tipico calicino da shot in cui si serve la vodka. In Unione Sovietica, le ryumochnaya erano indicate come “snack bar specializzati”. Erano in pratica bottiglierie che vendevano oltre all’alcol – principalmente vodka- anche semplici pasti, panini con salsiccia, uova sode, formaggio, aringhe salate, spratti (se ve lo state domandando è un pesce simile alla sardina che facilmente troverete conservato in scatola), che la gente consumava in piedi appoggiati a tavoli alti senza sedie. Un bar dal sapore sovietico che era luogo di convivialità, passione, incontro, lunghe discussioni ma anche di perdizione e autodistruzione. Nella Russia moderna quelle più antiche stanno scomparendo e stanno nascendo delle rivisitazioni più cool come questa a Mosca oppure quella che si trova nel Museo della Vodka  a San Pietroburgo.

Come si beve e qualche suggerimento

La vodka non si assapora come se fosse un vino d’annata o una grappa, si beve alla goccia. Meglio accompagnarla con qualche stuzzichino calorico magari salato- gli immancabili cetriolini sottaceto, acciughe o lardo su fette di pane integrale, formaggio, aringhe – o con la classica salamoia. Consiglio per la sopravvivenza (testato personalmente): se per caso vi ritrovate ad una cena in cui oltre alla vodka circolano anche vino e birra evitate di mischiare. Consiglio da me più volte disatteso con conseguenze nefaste! ;)))

Il bicchierino è generalmente preceduto da un ‘tost’, un articolato brindisi in cui si augura ogni sorta di bene ai commensali (salute, amore, amicizia, fortuna ecc). Se proprio non sapete cosa dire un za zdarovje è accettato!

E ora beccatevi questa breve lista delle mie preferite.

Potreste dissentire ma…”De gustibus non est sputazzellam!“.

Tsarskaya Gold

Ce l’ha consigliata l’addetta del Duty free e siamo stati contenti di ave accettato il consiglio. E’ finita in una cena con amici! La ricetta risale all’epoca di Pietro il Grande. Distillata da grano e affinata con miele, un’infusione di fiori di tiglio e l’acqua del Ladoga.

Beluga

Forse una delle più conosciute e riconosciute. Prodotta con ingredienti biologici, lieviti naturali e l’acqua più pura dei pozzi artesiani della Siberia. Distillata da orzo e affinata con miele, rhodiola rosea e cardo mariano.

PureDew

Una vodka biologica prodotta artigianalmente e di altissima qualità. Ogni stadio della preparazione è certificato secondo il Bio Standard. I terreni da cui nasce il grano utilizzato riposano per anni e non vengono trattati con fertilizzanti artificiali, cosa che non permette di avere grano in grande quantità.

Nemiroff Betulla

Vodka ucraina aromatizzata alle gemme di betulla.

A Yur’ev Pol’skij c’è un tempietto di pietra bianchissima nel bel mezzo della campagna, con una grande cupola nera e ricoperto di strampalate creature. Credo che siano in pochi anche i russi a conoscerlo e i turisti ancora meno. Yur’ev Pol’skij è un minuscolo agglomerato di sgangherate casette sulla strada tra Suzdal e Serghiev Posad. Fondata dal principe Yuri Dolgorukij nel 1152, custodisce questa perla dell’architettura russa medievale, il Georgevskij Cobor.

Trovarla non è difficile visto che ci saranno sì e no quattro strade! Come tanti paesini della Russia rurale l’atmosfera di Yur’ev è come sospesa tra un romantico fascino campestre e una sensazione di inquietudine, di isolamento dal mondo e di abbandono quasi inselvatichito. Stradine sterrate o male asfaltate, aiuole verdi, casette di legno, innumerevoli chiese e monasteri. Eppure prima che i Mongoli lo cancellassero dalla storia era un centro piuttosto importante.

Parcheggiamo lungo la strada asfaltata che costeggia da un lato un parco e dall’altra le mura in mattoni e legno del Mikhaylo Arkhangel’skiy Monastyr’. Il territorio della chiesetta è delimitato da una bassa recinzione in ferro e un sentiero lastricato le gira tutto intorno.

Non c’era anima viva, a parte noi e un gruppetto di ricercatori e restauratori. Quella mattina il cielo era di un blu talmente profondo che faceva quasi male agli occhi, l’aria tersa e cristallina. I Monumenti in pietra bianca di Vladimir e Suzdal sono fatti della stessa pietra calcarea. Una specie di marchio di fabbrica. Miracolosamente scampati all’invasione mongola, oggi sono patrimonio UNESCO. Le pareti sono ricoperte di immagini bizzarre di animali, uccelli, piante: leoni con code “fiorenti”, oche con il collo intrecciato, fauci, viticci, leoni e sirene. 

Il bestiario slavo affonda le sue radici nel substrato iranico della cultura Scita. Ad esempio la figura dell’uccello, da sempre simbolo del ritorno della primavera ma anche, tramutato in uccello di fuoco, simbolo del sole.

Leoni e sirene scolpite si ritrovano anche nelle isbe di legno. Parte di questo bestiario potrebbe essere giunto nell’arte russa del XII sec attraverso l’Occidente, ad opera di artisti renani giunti a lavorare a Vladimir. Ma qui non si tratta di copia quanto piuttosto di una reinterpretazione di antiche suggestioni pagane in quelle terre di recente cristianizzazione.

Tra i bassorilievi trova posto anche il nome del maestro Bakun, il principale scultore della cattedrale, che guidò la squadra di intagliatori.

Sembra un gigantesco rebus di pietra, silenziosa come il silenzio che la circonda.

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