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Samarcanda non è quello che credete.

Se vi aspettate la mitica Maracanda di Alessandro Magno o la città dei racconti da Mille e una notte, resterete delusi. E’ una città che deve essere affrontata con il giusto spirito per essere capita. Samarcanda è un gran groviglio non solo dal punto di vista storico, culturale, architettonico e urbanistico, ma anche dal punto di vista linguistico. E’ una città in prevalenza tagika che parla soprattutto tagiko ma la lingua ufficiale e l’uzbeko e, come se non bastasse, la lunga dominazione russa ha portato il cirillico e il russo, a cui si aggiungono le minoranze ebree, coreane, rom e ancora altre arrivate con le deportazioni sovietiche. Tutto questo vive nei suoi quartieri! Se la osservate dall’alto ve ne renderete conto: nella parte russa quartieri squadrati, strade dritte, grandi parchi; nella parte tagika una medina di case e stradine.

Samarcanda è una città che si aggrappa a ciò che rimane del suo glorioso passato con tutte le sue forze, ricorrendo a selvagge ricostruzioni e arditi restauri. Ma della Samarcanda antica e timuride resta poco o niente, devastata dal passaggio di Gengis Khan e da secoli di storia travagliata. Il Registan, la necropoli Shah-i-Zinda, l’Afrosiob, la moschea di Bibi-Khanum, l’osservatorio di Mirzo Ulugbek, il mausoleo di Tamerlano Gur-e-Amir… Tino Mantarro nel suo splendido Nostalgistan la definisce una specie di Disneyland. Sono da vedere sia ben inteso, riescono comunque a sorprenderti, ma intorno ad essi cresce una città ben diversa. O forse sarebbe meglio dire più città. Quella imperiale degli zar, quella sovietica e quella moderna, fatta della nuova versione di mnogoetazhniki, di parchi e prati verdi e rigogliosi che rendono la città una specie di oasi in mezzo al deserto, dei quartieri popolari. E anche questa deve essere accettata. Anzi, in realtà è l’ulteriore dimostrazione che a Samarcanda c’è molto di più da vedere e che basta allontanarsi dai sentieri più battuti.

Se volete farvi una buona idea di cosa sia la Samarcanda odierna vi consiglio questo libro Samarcanda. Storie di una città dal 1975 a oggi di Marco Buttino.

Quindi facciamo un po’ il punto della situazione su cosa c’è da vedere a Samarcanda.

Seguitemi!

LA SAMARCANDA ANTICA

Il Registan

Il nome deriva dal persiano e significa “luogo di sabbia” o “deserto”. Era una piazza pubblica, la più importante della Samarcanda timuride. Qui furono costruite tre madrase, le scuole dove si studia il Corano: Ulugbek, Sher-Dor e Tilya-Kori. Oggi se arrivate in questa piazza di sera, entro le 22, assisterete ad un magico gioco di luci. Questa è la cartolina della città e, forse, di tutta l’Asia Centrale. Di giorno le maioliche scintillano sulle facciate delle tre madrase dai minareti tutti storti. Ma all’inizio del Novecento il loro aspetto era ben diverso, come documentato da artisti ricercatori che hanno viaggiato in lungo e largo in Asia Centrale nel XIX e XX secolo. Le foto suggestive custodite nella madrasa di Tilya Kori mostrano facciate scrostate, minareti distrutti e le bancarelle che affollavano la piazza dove oggi si accalcano solo i turisti. In quelle che erano le celle degli studenti ci sono negozietti di souvenir, tappeti e artigianato.

La madrasa Ulugbek fu costruita dal nipote di Tamerlano ed è stata una delle migliori università dell’Oriente islamico nel secolo XV. La madrasa Sher-Dor presenta una particolarità sulla sua facciata, la rappresentazione di animali: due tigri e altri due non ben identificati animali bianchi (forse due daini?). Poiché nell’Islam è vietato raffigurare esseri viventi, questi animali sembrano reali solo in apparenza. Osservandoli bene ci si accorge che sono fantastici. Inoltre presentano dei tagli verdi sul corpo, il che indica che l’artista ha voluto rappresentarli come se non fossero vivi. Solo Allah può dare la vita, l’uomo può limitarsi alla rappresentazione di qualcosa di fantastico o morto. La madrasa Tilya Kori ha una moschea con una strabiliante cupola d’oro e blu. Anche se evidentemente è stata rifatta l’effetto è mozzafiato.

La necropoli Shah-i-Zinda

Questa necropoli è una specie di cimitero monumentale. Il nome è estremamente evocativo e significa “il re vivente”. Il complesso si compone di tre gruppi di strutture: inferiore, medio e superiore collegate tra loro da quattro arcate chiamate chartak. Le tre parti risalgono a epoche differenti che vanno dal IX al XIV e al XIX secolo. Qui sono sepolti parenti di Tamerlano, membri del clero e dell’aristocrazia militare. Si dice anche che qui sia sepolto Kusam Ibn Abbas, il cugino del profeta Maometto e questo rende la necropoli meta di pellegrinaggio.

L’Afrosiob

Il sito archeologico di Afrosiob si trova nella parte nord dell’odierna Samarcanda e fa riferimento alla città di epoca Sogdiana. Qui non troverete palazzi e maioliche, ma solo le rovine della cittadella e delle mura esterne. Tutto ciò che è riaffiorato durante gli scavi di epoca sovietica negli anni ’60 e ’70 è custodito nell’interessante museo che si trova all’ingresso dell’area archeologica.

La fase più antica della città risale al VII-VI sec a. C. quando la città era in mano alla dinastia Eksid. A questo periodo appartengono gli affreschi conservati nell’adiacente museo, forse rappresentazione di un’incoronazione, forse una celebrazione religiosa. La storia di questi affreschi è spiegata molto bene in un video che si può guardare all’interno del museo. Questa potrebbe essere la bella Maracanda che affascinò Alessandro Magno durante la sua spedizione nella Sogd nel 329-327 a. C. La città sopravvisse per molti secoli, prima come parte del regno greco-battriano, poi parte degli imperi turco e cinese e infine conquistata dagli Arabi, fino alla distruzione di Gengis Khan quando venne abbandonata definitivamente. La sede della nuova Samarcanda venne individuata da Tamerlano spostata di qualche chilometro.

La moschea di Bibi-Khanum

Situata proprio accanto al Syob bazar, quando vi ritrovate davanti l’imponente portale di questa moschea vi sentirete piccolissimi. Fu costruita al termine della campagna indiana del 1399 da Tamerlano con l’intento di farne la più grande moschea dell’Oriente islamico. La costruzione piuttosto veloce vide la partecipazione di artisti locali, ma anche provenienti da Azerbaigian, Persia, Khorasan e India. Per darvi un’idea dell’opera mastodontica, c’è la testimonianza di un nobile europeo castigliano, Ruy González de Clavijo, che racconta dell’utilizzo di 90 elefanti per trasportare le pietre preziose necessarie alla sua costruzione. Crollò definitivamente durante il terremoto del 1897. Quella che vediamo oggi è in gran parte un edificio di recente ricostruzione. Circolano molte leggende sulla moschea, come quella di un bacio galeotto tra l’architetto e Saray Mulk Khanym o Bibi Khanum, la moglie preferita di Tamerlano, a cui tra le varie ipotesi, potrebbe essere dedicata la moschea.

L’osservatorio di Mirzo Ulugbek

Ulugbek oltre ad essere principe di Samarcanda e nipote di Tamerlano era un eccezionale astronomo. La madrasa da lui fatta costruire sulla piazza del Registan era un importante centro astronomico. Per coadiuvare la ricerca astronomica della madrasa, Ulugbek fece costruire un osservatorioconsiderato ancora oggi uno dei migliori dell’Islam medievale. Per darvi un’idea delle incredibili doti di astronomo di Ulugbek pensate che ha stabilito la durata dell’anno solare con un errore di pochi SECONDI rispetto all’attuale computo! Inoltre è riuscito a determinare l’inclinazione assiale della terra in 23°52, valore tuttora confermato. Ulugbek venne assassinato da fanatici religiosi nel 1449 e il suo osservatorio venne distrutto con lui. Per molto tempo la sua posizione rimase sconosciuta. Fu riscoperto solo nel 1908 dall’archeologo russo V.L. Vyatkin grazie ad un documento del XVII secolo e poi grazie agli archeologi sovietici fu fatto il possibile per preservare ciò che ne restava. Oggi si conserva il grande sestante protetto da una copertura a tunnel e nel piccolo museo si possono scoprire molti interessanti dettagli.

LA SAMARCANDA RUSSA E SOVIETICA

Vasilij Vereshchagin è famoso per i suoi quadri che documentano la conquista del Turkestan da parte dell’impero russo. Partecipò alle campagne militari, si ritrovò coinvolto nell’assedio della fortezza russa di Samarcanda, viaggiò in lungo e largo in Asia Centrale per documentare le usanze degli abitanti e i paesaggi. Le tele che fanno parte della sua grande serie di dipinti sul Turkestan mostrano con crudezza quegli eventi storici e le popolazioni locali che incontrò. Una straordinaria testimonianza diretta!

Quella russa e sovietica sono due parti della Samarcanda moderna che non possono essere escluse dalla visita della città se davvero si vuole apprezzarla appieno. Vi ritroverete catapultati in tutt’altre atmosfere! Il Boulevard Abramov, la Facoltà di Scienze Naturali dell’Università Statale, un grazioso edificio color pastello in stile russo ex sede di una banca cinese, bassi edifici in mattoni, la Cattedrale di Sant’Alessio e quella cattolica di Giovanni Battista, ampi viali alberati con immensi platani e aiuole verdissime.

Un’esperienza da non perdere è la visita alla Dom Filatova, sede dell’antica vineria Khovrenko. Vi starete chiedendo… ma il vino? In Uzbekistan? La risposta è sì, l’Uzbekistan è uno dei maggiori produttori di uva dell’Asia Centrale e la tradizione vinicola è antichissima portata qui probabilmente ai tempi degli arabi. La cantina Khovrenko è stata fondata da Dmitriy Filatov, di cui conserva il nome, nel 1868 e già allora ottenne importanti riconoscimenti in Europa. L’enologo e chimico russo Michael Khovrenko rilevò l’azienda e diede nuovo impulso alla produzione. Oggi nel museo si conservano ancora bottiglie delle annate più importanti e si possono fare tour guidati e degustazioni.

Se invece siete appassionati del periodo sovietico basta fare un giro fuori dal centro per imbattersi in mosaici, khrushchyovki che sostituirono i tradizionali mahalla (grandi case con una corte centrale dove vivevano intere famiglie tutte insieme), fabbriche ed edifici del periodo.

LA SAMARCANDA DIETRO I MURI

Samarcanda è una città multietnica. Qui convivono uzbeki, tagiki, kirgisi, russi, ebrei, lyuli, coreani e altri. Un vero e proprio crocevia di popoli. Ma per trovarla tutta questa umanità vera bisogna allontanarsi dai luoghi cartolina tirati a lucido e assediati dai turisti e addentrarsi nella città moderna, ma soprattutto al di là di quei muri costruiti per nascondere la parte più povera della popolazione. In una zona che si estende tra il Registan e Sha-i-Zinda e la moschea Bibi Khanum si trova il quartiere ebraico. La presenza di ebrei provenienti da Bukhara a Samarcanda ha una storia molto antica. Le prime documentazioni sulla comparsa di questi ebrei sono rare ma risalgono al XII secolo e la loro storia è davvero interessante. Oggi questo antico quartiere è un melting pot etnico.

Un’altra comunità misteriosa e antica è quella dei Lyuli. Purtroppo, oggi vive discriminata e ai margini della società uzbeka, che vede in loro solo ladri e accattoni. Questi rom dell’Asia centrale, sono imparentati con i Rom e i Sinti dell’Europa e del Medio Oriente, ma potrebbero essere originari dell’India. Il poeta medievale persiano Ferdowsi parla nello Shahnameh di musicisti indiani inviati come dono al re persiano Bahram Gur dal re indiano Sangulu. Ma non ci sono evidenze storiche a favore di questa tesi. Di certo non sono sempre stati considerati dei reietti in Asia Centrale.

Oggi fanno parte di una comunità isolata e preservano un sistema di caste. La maggior parte della popolazione uzbeka li considera sporchi, ladri, stregoni e incuranti delle leggi. Quello della loro integrazione è un problema molto grosso in Uzbekistan. Efficaci progetti di integrazione furono sviluppati in epoca sovietica quando si cercò di sedentarizzarli, inserirli nel mondo del lavoro e alfabetizzare i bambini, furono create le prime attorie collettive tsygane (цыганы – Tsygani era ed è il termine con cui vengono indicati in russo). Oggi non esistono politiche di questo tipo sponsorizzate dallo stato nei confronti della comunità Lyuli. Non ci sono progetti che lavorino sulla destigmatizzazione, sulla sensibilizzazione, sull’inclusione o sull’istruzione. Ci sono però progetti a livello europeo che possono essere un esempio per la realtà Lyuli in Uzbekistan.

FUORI SAMARCANDA

La cartiera

“La migliore carta del mondo viene prodotta a Samarcanda” disse il principe Babur discendente di Tamerlano e fondatore della dinastia Moghul. Fin dall’antichità Samarcanda era famosa per la sua carta. Una carta speciale fatta con il gelso che cresceva rigoglioso in tutta la regione. A pochi km dalla città la fabbrica di carta Meros, fondata dai fratelli Mukhtarov a Koni Ghil, è ancora oggi un’eccellenza del territorio. Costruita con immensi sacrifici, questa cartiera ha fatto rivivere il metodo antico di produzione della carta di seta. Un lavoro artigianale che utilizza materie prime naturali di qualità e che dà vita a una carta che può durare per secoli.

Il posto è un piccolo paradiso di alberi, piccoli fabbricati in mattoni di fango, ruscelli e un mulino in legno come ce n’erano in gran quantità intorno a Samarcanda. Qui i visitatori possono assistere a tutto il processo di produzione, acquistare souvenir fatti interamente di questa preziosa carta, rilassarsi e rifocillarsi. Il suo instancabile fondatore Zarif Mukhtarov è un vulcano di idee e ha intenzione di continuare espandere questo piccolo paradiso con nuovi laboratori, programmi culturali e workshop.

Avete visto il film “Goodbye Lenin”? Siamo nei turbolenti giorni che precedettero il crollo del muro di Berlino, Christiane, convinta comunista della Berlino Est e donna già malata, intravede il figlio Alex ad una manifestazione. Dallo shock perde i sensi e batte la testa andando in coma. Si risveglia che ormai il muro è caduto, ma lei non lo sa e non lo scoprirà mai, perché fino alla sua morte Alex cerca di tenerla all’oscuro di tutto ciò che è successo.

Nel film emerge il sentimento di “nostalghja” abbastanza tipico in tutto l’ex Est comunista, ad esempio quando Christiane vuole mangiare proprio una particolare marca di cetriolini a cui era tanto affezionata. E’ un sentimento intimo e personale che ricorda un po’ quello di Proust per le madeleines. Il passato socialista a Budapest è un eco che fatica a trovare i suoi spazi. In parte sopravvive nella memoria di chi ha vissuto quell’epoca, in parte cerca di non scomparire travolto dal tempo e dalla smania di cambiare pelle. Si nasconde in piccoli dettagli.

Proprio qualche giorno mi è capitato di leggere di una petizione lanciata nella città, per salvare le insegne al neon di epoca sovietica che illuminavano le notti di Budapest, come una Parigi comunista, perché rischiano di andare perdute. Parlandone con Attila ho ritrovato quel sentimento proustiano. “Sono un ricordo legato alla mia infanzia. Il comunismo è stato parte del nostro passato, della nostra storia, perché dovremmo rinnegarlo?”.

Mettendo da parte quello che può essere stato il contesto storico e politico sono memorie affascinanti che meritano di essere preservate. Budapest non è una città facile da capire, è bella, è una delle città più visitate al mondo, ma capirla è tutt’altra cosa e spesso si rischia di viverla superficialmente. La storia qui si è susseguita in una maniera travolgente. In cento anni è passata attraverso l’Impero Asburgico, la breve Repubblica Socialista d’Ungheria nel 1918, la restaurazione ultraconservatrice di Miklós Horthy, la Seconda Guerra Mondiale, la repressione stalinista e la sanguinosa rivoluzione del ‘56. E poi i quarant’anni di comunismo che pure qui ha assunto una forma tutta sua, tanto che l’Ungheria viene definita la “baracca più felice” all’interno del campo sovietico. Poi c’è stata la fine dell’Unione Sovietica e la nuova spinta ultranazionalista dell’attuale governo.

Da un regime all’altro, gli ungheresi hanno sempre lottato per la propria libertà e indipendenza. In quest’ultima fase storica si sta cercando di cancellare tutto ciò che non sia magiaro e il periodo 1949-1989 non fa eccezione. Ma nonostante gli sforzi, alla fine qualcosa della Budapest socialista ancora sopravvive e ancora qualcuno cerca di preservarne la memoria.

In questo post troverete una piccola guida (sicuramente non esaustiva!) alle tracce del comunismo ancora visibili nella città. Seguitemi.

Le luci al neon

Vengono associate a modernità e progresso. Al di là della Cortina di ferro erano più il simbolo di un’illusione. Senza voler idealizzare l’epoca comunista, sono parte di un passato quotidiano e hanno un fascino che riside nella loro estetica e nella loro capacità di veicolare messaggi. Questi neon erano un modo per “educare” la popolazione, si trasformarono in uno strumento di propaganda attraverso il quale si voleva far passare una sensazione di stabilità, modernità e benessere.

Sponsorizzavano attività e messaggi più disparati: dalle agenzie di viaggio ai caffè, ai negozi di alimentari, ristoranti, gas naturale, negozi di antiquariato, raccomandazioni al traffico come: “Attenzione, Pazienza e Educazione”. Ed erano così tante da far guadagnare a Budapest la fama di Capitale europea del neon. Con il crollo del comunismo sempre più spesso ne venivano cancellate le tracce dalle strade e queste insegne che prima illuminavano la città vennero man mano spente.

Oggi molte sono fatiscenti, stanno lentamente scomparendo davanti agli occhi delle persone, spesso senza che queste abbiano interesse a fare qualcosa. Qui potete trovare il racconto dell’interessante progetto che si sta occupando di salvarle dalla distruzione, grazie al lavoro di una designer, Luca Patkos. Il lavoro si propone restaurare (potete leggere un esempio qui) e ricollocare nel luogo originario, radunare in un museo o anche semplicemente spostare in luoghi protetti queste insegne. E’ stata creata una mini esposizione on line sul sito Neon Budapest e ci potete trovare anche una mappa con la collocazione.

E sono veramente tantissime, sparse in tutta la città! Invece nel cortile del Museum of Electrical Engineering, un bell’edificio in stile Bauhaus, ne trovate alcune già restaurate.

Memento Park

Il Memento Park è un esempio dello strano e ambiguo appeal esercitato dal brutalismo postcomunista. E’ stato inaugurato nel 1993 quando l’Unione Sovietica non esisteva più da soltanto da una manciata di anni.

Visitare questo Parco è un momento di riflessione, una lezione di storia sussurrata. Una storia che non deve essere cancellata, ma le cui cicatrici devono essere sfruttate. A darvi il benvenuto sono gli “stivaloni” di Stalin, copia di una immensa statua abbattuta durante la rivolta antisovietica del 1956, e una Trabant azzurrina. Nel grande piazzale sono riunite le monolitiche statue che una volta glorificavano il proletariato, i leader del Partito e l’Armata Rossa, in centro città. Sono statue realizzate tra il 1945 e il 1989 ed avevano un ruolo fondamentale nella propaganda del regime comunista.

Quando cadde il Muro di Berlino in tutto il mondo sovietico i simboli del comunismo vennero distrutti, ma in molti paesi si decise di raccogliere questi simboli e radunarli in musei e parchi. Il Memento Park è uno di questi (a Mosca ad esempio c’è il Museon). Nel 2021 quando l’abbiamo visitato noi c’erano dei lavori di restauro ma in generale purtroppo, a causa della mancanza di fondi tutto ha un aspetto abbastanza trasandato.

Le statue sembrano essere posate un po’ alla rinfusa, ciuffetti d’erba spuntano nei sentieri, basamenti delle statue scrostati, un’esposizione di statue di Lenin che sembrano essere accatastate in un magazzino, un edificio posticcio ospita il piccolo cinema dove viene proiettato il film documentario “La vita di un agente”. Nella sala accanto al cinema viene raccontata la storia degli eventi della Rivoluzione del 1956 e dei cambiamenti politici del 1989-1990. Il Museo è di proprietà dello Stato, ma di fatto è gestito da alcuni privati con i proventi dei biglietti e del negozio di souvenir.

Si raggiunge abbastanza facilmente con i mezzi pubblici. Prendete la metropolitana M4 Kelenföld e dal piazzale dei bus si può prendere il 101B, il 101E o il 150 (il viaggio dura circa 25 minuti).

Bambi Eszpresszó

Il Bambi Eszpresszó non è una rivisitazione in stile retrò, no, lui è proprio rimasto così, impassibile e immutabile allo scorrere del tempo. Bambi è un tipico presszó (un bistrot) ungherese. L’origine del nome arriva proprio dal cerbiatto della Disney – qualcun altro sosteneva che arrivasse da un omonimo soft drink, una bevanda a base di arancia, molto in voga in quegli anni.

Alla sua realizzazione hanno partecipato architetti e designer ungheresi rinomati come Lívia Gorka (le ceramiche appese alla parete sono sue) e Miklós Erdély (a lui si attribuiscono le piastrelle dietro al bancone). Fu luogo di ritrovo di artisti, letterati, imprenditori. Qui di turisti ne troverete davvero pochi, per lo più i frequentatori sono locali, uomini panzuti che bevono birra e leggono il giornale, amici che si ritrovano dopo il lavoro, giovani universitari, signore del quartiere fuori per un drink. Le sedie all’interno, con il rivestimento rosso in finta pelle, sono ancora quelle in uso sin dall’apertura negli anni Sessanta.

E’ un luogo dove puoi mangiare e bere a prezzi stracciati (una birra piccola costa tipo 1,5 euro) e la colazione è il suo cavallo di battaglia.  

Anche Budapest ha la sua Statua della Libertà

Sorge sulla imponente collina dove si trova la Cittadella. E’ un luogo dove si respira la travagliata storia ungherese, la continua lotta per la propria indipendenza e libertà. Un luogo che sembra essere simbolo di libertà tanto quanto oppressione.

La Cittadella fu costruita nel 1854 dagli Asburgo come strumento di controllo per prevenire una nuova ribellione ungherese. Sfruttando la posizione dominante sulla città, fu in seguito utilizzata sia dai Nazisti che dall’Armata Rossa. I Comunisti decisero di erigere un monumento a memoria della vittoria ottenuta sui nazisti. Il complesso era costituito da cinque statue: due erano soldati dell’Armata Rossa – finiti poi al Memento Park; una donna che regge una torcia e un uomo che combatte un drago a cinque teste; e infine la Statua della Libertà (Szabadság Szobor), una donna che tiene una foglia di palma con entrambe le mani alzate verso il cielo e che domina la città.

La bellissima arte decorativa russa è variopinta e antica. Il legno è un materiale facilmente accessibile e per questo motivo molte delle tradizioni pittoriche popolari si trovano proprio su questo supporto. Le isbà erano spesso decorate con intrecci di fiori e uccelli e motivi decorativi astratti, sia internamente che esternamente. Ma non solo le case venivano dipinte anche mobili, stoviglie cassepanche, scatole, slitte e i magnifici filatoi. Gli stili tradizionali della pittura popolare russa sono tipici ognuno di una regione precisa.

Vediamo alcuni tra i più famosi, così avrete qualche spunto per un souvenir originale (leggete qui per altri interessanti suggerimenti)

Nero, oro, rosso e fiori: Khokhloma

Gli elementi tradizionali sono le bacche rosse e succose di sorbo e fragola, fiori e rami, a volte uccelli, pesci e animali. Il tutto dipinto in oro, rosso, verde su sfondo nero. ХОХЛОМÁ nasce nella seconda metà del XVII secolo in villaggi situati sulla riva sinistra del Volga, nella provincia di Nizhny Novgorod. I prodotti lavorati con questa decorazione venivano trasportati e venduti nel grande centro commerciale di Khokhloma e da qui in tutta la Russia, in Asia e nell’Europa occidentale.

La si può trovare sugli oggetti più impensabili. Originariamente era una decorazione utilizzata per abbellire stoviglie e oggetti di artigianato in legno, ora khokhloma è utilizzata anche per aerografare auto e aerei, decorare lattine, facciate di edifici, oggetti artistici.

Il magnifico nord nella pittura Mezen

Mezen è originaria della regione di Archangelsk. Protagonisti di questo decoro sono animali (in particolare cavalli e renne) e piante stilizzati, a cui si aggiungevano ornamenti astratti. Hanno uno stile un po’ preistorico, e infatti somigliano ai petroglifi della Carelia. I colori tipici sono un bel rosso vivace, ottenuto utilizzando argilla rossa e il nero ricavato dalla fuliggine mescolato con resina di larice.

Ogni elemento e ricciolo del disegno aveva un significato specifico ed era disposto in modo speciale e ovviamente rifletteva la vita delle persone del Nord che lo avevano creato. Una menzione particolare la meritano i filatoi. I famosi “prjalka” sono una vera e propria opera d’arte, nonostante si tratti di un oggetto di uso comune, ancora oggi sono considerati un oggetto da collezione.

Quelli del Nord erano realizzati in un pezzo unico di legno massello che comprendeva radice e fusto dell’albero, generalmente pioppo, abete rosso o betulla. Quelli della regione del Volga invece erano compositi e finito il lavoro si potevano smontare ed usare come ornamento appeso alle pareti. I filatoi erano un pezzo molto importante della dote di una ragazza, erano costosi e venivano trattati con grande cura.

L’eleganza del blu e bianco

Ghzel è un tipo di decorazione su ceramica, elegante e raffinata, con disegni blu cobalto che spiccano su una finissima ceramica bianca. Prende il nome da un piccolo villaggio non lontano da Mosca famoso fin dai tempi di Ivan Kalità per essere ricco di argilla di alta qualità, tanto che fu usata come materiale per la fabbricazione di nuovi recipienti farmaceutici e alchemici. Ricorda un po’ la nostra ceramica di Faenza o le famose porcellane cinesi.

L’abilità dei maestri di questo territorio è ormai nota in tutto il mondo, tanto che il fascino di questa tecnica pittorica ha contagiato anche famosi stilisti come Valentino, Cavalli o artisti eccentrici come Lady Gaga. Spesso si trovano prodotti in maiolica venduti come porcellana di Gzhel. La vera porcellana è leggera, sottile, brilla attraverso la luce, trattiene il calore, emette un suono squillante quando viene colpita leggermente. Anche dai disegni si può capire se si tratta di un lavoro fatto a mano o stampato. Sul fondo dell’originale ci sarà sicuramente una marcatura, il timbro GFZ, le iniziali dell’autore.

Bouquet di fiori

La pittura di Zhòstovo è originaria della regione di Mosca. Qui, un gruppetto di villaggi divenne popolare all’inizio del XIX secolo per la presenza di numerosi laboratori artigianali che producevano oggetti in lacca di cartapesta. Quella della lacca su cartapesta è una delle tradizioni artistiche più originali e ricca dell’artigianato russo sviluppatasi all’alba del XIX secolo e divenuta sempre più rinomata, non solo in Russia. Molti di questi capolavori sono conservati al Museo Russo di San Pietroburgo, ecco perché è un peccato che spesso questo museo venga trascurato in favore dell’Ermitage (che è imperdibile, per carità!).

Verso la fine del 1700 un commerciante moscovita che produceva cartapesta, Piotr Korobov, affascinato dalle tabacchiere laccate tedesche ammirate durante un viaggio in Germania, decise di importare la tecnica in Russia dando vita alle lacche di Fedoskino. La pittura di Zhostovo e dei villaggi adiacenti ha avuto origine dalla miniatura di Fedoskino e dalla pittura artistica in lacca di vassoi di metallo, esistente nella città di Nizhny Tagil. Gli eleganti vassoi neri con splendide decorazioni floreali colorate ne sono l’espressione artistica più tipica.

Fiori su sfondo nero

Protagonista di questa tecnica decorativa è il bouquet di fiori: rose, peonie, margherite, tulipani, fiori di campo. I fiori possono essere disposti in ghirlande attorno al perimetro del vassoio, raccolti in mazzi di tre o cinque fiori, raffigurati in cestini, spesso sono accompagnati da frutti, bacche o uccelli. Vengono utilizzati colori ad olio su trementina, applicati con pennelli morbidi. La verniciatura multistrato viene eseguita in più fasi, ognuna delle quali è accompagnata da una lunga asciugatura.

L’esecuzione della composizione non è né dal vero né segue modelli. L’artista improvvisa, con la propria fantasia e tecniche compositive, quindi non ci saranno mai due vassoi identici. Gli artisti non avevano limitazioni alla loro creatività e potevano usare i colori che preferivano. Il colore del fondo generalmente era il nero, ma potevano essere utilizzati anche il rosso, il verde, il blu e l’avorio.  Oltre ai fiori inizialmente erano comuni anche soggetti come i paesaggi, la trojka trainata da cavalli a cui si sono aggiunti anche temo tratti dalle fiabe e scene di vita quotidiana. Se andate sul sito ufficiale dell’Atelier di Zhostovo vi potete fare un’idea degli splendidi lavori che vengono realizzati ancora oggi.  

La pittura “della Dvina settentrionale”

Severodvinskaja significa “della Dvina settentrionale”, un fiume del Nord che a partire dal XVI sec fu una grande arteria di trasporto in Russia. Fiorirono le città e i monasteri che si trovavano lungo il suo corso divenendo grandi centri commerciali e culturali: Kargopol, Belozersk, Solovetsky, Kirillo-Belozersky. La pittura popolare, nata sulle rive dei fiumi Dvina settentrionale e Mezen, è un’arte distintiva.

Questa pittura tradizionale trasformò oggetti della vita contadina in vere e proprie opere d’arte. Affonda le sue radici nell’antica arte russa: la pittura monumentale, le icone, le miniature. Fa uso di simboli pagani come l’albero della vita, l’uccello Siri e il grifone, ma anche ramoscelli, bacche, fiori, uccelli, cavalli e motivi geometrici.

Ogni elemento ha il suo significato, come l’albero simbolo della vita stessa o il trilistnik (trifoglio) simbolo della trinità come filosofia di vita (nascita-vita-morte, terra-acqua-aria). Si possono individuare tipologie diverse in questo stile decorativo. In alcune i motivi più ricorrenti sono Sirin e i cavalli, altre sono dominate da ornamenti floreali e viticci, oppure da scene di vita quotidiana, rituali e feste dipinti in uno stile che ricorda le iconostasi. I colori tipici su uno sfondo bianco sono il rosso, il giallo e il verde, il nero e l’ocra.

Ci sono molti modi per studiare la cultura di un popolo, uno di questi è l’artigianato. Acquistare uno di questi oggetti da un artigiano locale è un modo per preservare le tradizioni locali e contribuire alla loro sopravvivenza.

Attenzione.. Articolo un po’ nerd di storia dell’arte in cui vi porto nel magico mondo degli Scacchi di Lewis. Se state programmando un viaggio a Londra vorrete mica non andare al British Museum. E queste meraviglie si trovano proprio lì e rischierebbero di passare inosservate in mezzo a tutto il popò di roba che offre questo Museo. A meno che… Voi non siate dei fanatici di arte medievale, in quel caso potreste saperne più di me e allora mi scusino!

Misteriosi e intriganti, proprio come la storia della loro scoperta. Sono stati ritrovati nel 1831 alle Ebridi, sull’isola di Lewis da cui prendono il nome. Il numero preciso dei pezzi non è stato immediatamente rilevato in maniera accurata e le transazioni che li hanno portati da Lewis a Edimburgo non sono ben documentate.

Nelle successive trattative di vendita la collezione è stata più volte divisa, alcuni pezzi vennero venduti separatamente, altri semplicemente si dispersero in mani private. Ad oggi i pezzi conservati sono 78 e si possono ammirare al British Museum di Londra (io li ho visti qui) e al National Museum of Scotland a Edimburgo.

Molte leggende circolano sulle loro origini e sulla loro storia e questo ha contribuito a generare un alone di mistero. Ma una cosa è certa, le loro simpatiche facce con quegli occhi spiritati, i delicati intagli delle barbe e dei capelli e i meravigliosi decori di scudi e troni sanno conquistare tutti i cuori. Sono dei piccoli capolavori di arte romanica.

Tanto da guadagnarsi un cameo in Harry Potter e la Pietra filosofale nella scena in cui Harry e Ron imparano a giocare a scacchi, abilità che tornerà loro utile quando dovranno affrontare l’incantata scacchiera gigante a guardia della Pietra.

Curiosi personaggi personaggi questi Scacchi di Lewis.

Nelle prime descrizioni appaiono proprio così: “curiosi”. Ma Sir Frédéric Madden ne riconobbe immediatamente anche il valore in quanto opera d’arte: delle mini sculture con caratteri simili alle loro sorelle “maggiori” in legno e pietra. Sono stati intagliati tra il 1150 e il 1200. Dove? Non è chiaro.. Inghilterra o Scandinavia, più probabilmente la seconda.

Si chiamano Arti Minori ma sono solo capolavori in miniatura!

Per molti secoli le arti minori furono più importanti dell’architettura, della pittura monumentale e della scultura, definite arti maggiori. Più adatte ad essere trasportate in un mondo in continuo movimento (pensate alle culture prevalentemente nomadi dei paesi del Nord e Slave, ma anche agli stessi sovrani occidentali che avevano corti itineranti) erano loro a definire le tendenze artistiche.

Per tutto l’alto Medioevo occupano un ruolo di primo piano e sono di una qualità colta e raffinata che le rende la più profonda espressione artistica di quei secoli. E forse non è un caso che quei pochi nomi di artisti giunti fino a noi fossero orafi: Vuolvinio, Godefroy, Nicolas de Verdun, il maestro Hugo. E accanto a loro i nomi dei grandi committenti tra cui spicca l’abate Suger di Saint Denis. Piccoli oggetti capaci di suscitare grandi emozioni. Considerati preziosi non tanto per i materiali pregiati, quanto per la qualità della manifattura e per il loro valore spirituale e simbolico capace di condurre “per visibilia ad invisibilia”.

La tendenza si inverte verso la fine del XI secolo. Da qui in poi saranno le arti maggiori a dominare la scena artistica, ma nelle arti minori si possono comunque identificare alcuni elementi comuni.

Ad esempio la monumentalità, che l’arte romanica condivide con quella del X e XI sec, insieme alla pesantezza e alla rigidità. I nostri buffi piccoli amici, con i loro ben dieci centimetri di altezza, potrebbero essere stati realizzati tra il 1150 e il 1200. In loro le forme sono estremamente semplificate, le pieghe degli abiti sono quasi un ornamento, le figure sembrano masse pesanti compresse in poco spazio la cui pressione sembra voler esplodere dagli occhi. Hanno un’impostazione bidimensionale come se fossero dei rilievi che emergono da un fondo piatto e questo dona loro un aspetto primitivo.

Che si tratti di re o regine, di cavalieri o vescovi hanno tutti la stessa espressione stralunata con grandi occhi sporgenti, labbro superiore prominente e piegato all’ingiú. Molta più fantasia è stata utilizzata nel decorare i troni. Ognuno di essi presenta una propria particolarità dai motivi geometrici, animali avvolti in viticci, ornamenti arabeggianti. Tutti motivi ampiamente utilizzati in manoscritti, oreficerie, altri manufatti in avorio e architetture negli stessi anni.

I Re

I re sui loro troni reggono tutti una spada con entrambe le mani, poggiata sulle ginocchia. Potrebbe trattarsi di un simbolo di forza fisica ma anche dell’amministrazione della giustizia. Il mantello è rimboccato sul lato destro per permettere l’impugnatura della spada.

Le pieghe delle vesti presentano un marcato linearismo che ritroviamo anche nei manoscritti dello stesso periodo. Il re era come un padre per il popolo, questa figura paterna è sottolineata dalle folte barbe che presentano tutti tranne un paio. I capelli sono raccolti in trecce che ricadono sulla schiena secondo la moda del tempo. Solo uno sfoggia un caschetto da fare invidia a Raffaella Carrà.

Le Regine

Assise su troni decorati come i re anche loro ci permettono di farci un’idea delle mode del tempo. Sotto la corona indossano un velo che ricade sulle spalle. Quasi tutte hanno questa strana posa con la mano destra sul viso e la sinistra che sorregge il gomito opposto.

Due reggono un corno (la cui simbologia non è chiara) nella mano sinistra e una un lembo del vestito o un velo. Anche per le regine gli abiti presentano un forte linearismo, su alcune ancora più accentuato.

I Vescovi

Alcuni sono in piedi, altri seduti su troni. Tutti indossano la mitra e impugnano un pastorale, alcuni con due mani, altri con una, reggendo nell’altra una Bibbia o benedicendo.

I Cavalieri

Montano cavalli tozzi e irsuti che sembrano più che altro pony. Sono pronti per la battaglia, indossano elmi, scudi, spade, lance. Gli elmi sono di varia forgia: conico con para orecchie e naso come d’uso dal XI sec, oppure il Chapel de Fer un elmetto tondo simile ad una cuffia. Gli scudi sono finemente decorati.

Le Guardie e le pedine

Le guardie sono raffigurate come soldati di fanteria. Tre sono davvero particolari, mordono rabbiosamente lo scudo. La spiegazione di questa strana furia la si trova nelle saghe norvegesi. I guerrieri di Odino si lanciavano in combattimento mordendo i loro scudi e questa frenesia aveva il nome di Berserksgangr. Berserker potrebbe derivare da “bear shirt” o “bare shirt”, a entrambi si attribuiva il significato di selvaggio.

Le pedine sono tutte inanimate

Il ruolo degli scacchi

Da sempre sono considerati un gioco complesso di strategia e abilità. Le origini non sono chiare e vanno dalla Grecia all’Egitto, dall’India alla Persia. In arabo la parola scacchi è shatranj, derivazione del persiano chatrang e dal sanscrito chaturanga. Le prime scacchiere risalgono al VII e IX secolo. Dalle lontane terre arabe il gioco è giunto in Europa dove ha assunto proprie caratteristiche. Ad esempio la figura del Visir diventò la regina con la sua funzione di consigliere, quella che negli scacchi persiani era il carro di guerra diventò la torre, la figura del vescovo era inesistente e probabilmente era in sostituzione del principe.

Nella chiesa di San Savino a Piacenza c’è un curioso mosaico pavimentale che rappresenta una grande scacchiera. Solo uno dei due giocatori appare raffigurato. Dell’altro spunta solo un braccio che discende sulla scacchiera. Forse mancanza di spazio per la raffigurazione? O forse questo mosaico riprende la tematica della Ruota della Fortuna rappresentata centralmente e potrebbe indicare il gioco degli scacchi contro Morte e Fortuna?

Qui vi ho parlato di altre serie di scacchi affascinanti. Questa volta siamo a San Pietroburgo. In Russia questo gioco ha conosciuto una fama straordinaria in epoca sovietica, quando i comunisti decisero di diffondere questo hobby alle grandi masse e trasformarlo in una vera e propria arma politica. Ciò era dovuto al fatto che questo sport insegna a pensare in modo strategico, e per l’URSS era fondamentale dimostrare la propria superiorità intellettuale.

Basta.. fine del post nerd! Gli scacchi di Lewis vi aspettano, non dimenticatevi di loro.

Io invece vi aspetto su IG e FB.

Mi sono innamorata di questa regione fin dal primo momento in cui ci ho messo piede. Sarà perché ha il sapore della famiglia visto che qui ci vivono i miei zii, sarà per la sua meravigliosa varietà, sarà il ricordo di quei bei tramonti autunnali sulle ampie campagne bordate di montagne e punteggiate di casolari, sarà perché adoro i suoi vini bianchi, sarà perché è così carico di quei “sassolini medievali” che ricerco un po’ ovunque.. Insomma un pezzettino di cuore è lì!

Una terra tanto sconosciuta quanto intensa e succosa. Il Friuli Venezia Giulia è una regione originale, completa: mare, montagne (e vorrei ricordarvi che una parte stupenda delle Dolomiti, si trova anche qui), colline (belle e suggestive come quelle di Umbria e Toscana), città d’arte, alcuni dei più bei borghi d’Italia (ben 12 per la precisione). Una regione dai mille volti, dalle mille suggestioni: da quelle paleocristiane e medievali a quelle mitteleuropee, a quelle della Grande Guerra con tutte le sfumature che ci sono in mezzo. Per farvela breve: volete il mare, c’è; volete la montagna, c’è; volete l’arte c’è; siete dei golosi, siete nel posto giusto; amate il vino, c’è…e che vini! Seguitemi.

“Il Friuli è un piccolo compendio dell’universo, alpestre, piano e lagunoso in sessanta miglia da tramontana a mezzodì.” Ippolito Nievo

Ragione n.1 Le Montagne

Le montagne friulane sono territori in cui laghi, boschi, torrenti, vallate e borghi piccoli ma carichi di fascino, regnano sovrani. Il Carso è un altopiano roccioso calcareo incastonato in quella striscia di terra che va da Gorizia a Trieste e si protende fino all’Istria. E’ una regione imperdibile per gli amanti della natura. Un susseguirsi di doline, sentieri, grotte e falesie a picco sul mare, che da tipicamente alpina scivola verso quella mediterranea man mano che ci si avvicina al mare. Protagonista della Grande Guerra è anche ricco di storia tra monumenti, sacrari e musei. Le Dolomiti friulane, patrimonio UNESCO, sono suddivise in tre comprensori principali: Piancavallo, Magredi e le Valli Pordenonesi, tutti contraddistinti da una natura incontaminata. Piancavallo (rinomata località sportiva) e il Parco Regionale delle Dolomiti Friulane sono imperdibili.

Ragione n.2 L’Arte medievale e paleocristiana

L’importanza dei Longobardi in Italia è evidente da nord a sud, l’eredità artistica ed architettonica che mescola elementi bizantini, germanici e romani, è stata riconosciuta patrimonio UNESCO. Soprattutto in Friuli se ne trovano testimonianze che toccano vette altissime. Non si può perdere Cividale dove si trovano il Tempietto Longobardo e il Museo Cristiano e Tesoro del Duomo dove sono custodite finissime opere di oreficeria e l’Altare del Duca Ratchis. L’arte paleocristiana della Basilica di Aquileia con il più grande mosaico pavimentale del mondo occidentale conservato. Ma poi ci sono decine di chiese, castelli e rocche di epoca medievale. Minuscoli paesini come Spilimbergo che custodiscono testimonianze medievali preziose come il Duomo di Santa Maria Maggiore. E ancora abbazie benedettine come Santa Maria in Silvis che nell’antichità era circondata da una vasta selva e quella di Rosazzo con un prezioso roseto dove crescono varietà antiche di rose come la damascena, la noisette e la centifoglia. Anche Trieste, nonostante la sua tipica atmosfera mitteleuropea custodisce due capolavori medievali. Il Duomo di Muggia risalente al XII secolo con la sua bianca facciata trilobata elegantissima nella sua semplicità e la Basilica di Santa Maria Assunta, sempre a Muggia.

Ragione n.3 Il Vino:

L’infinita varietà di questa terra si esprime anche nei suoi vini. Dalle dolci colline del Collio e dei Colli orientali nascono vini bianchi tra i migliori al mondo e corposi rossi. In una terra tra monti e mare il microclima è assolutamente unico e si sposa perfettamente con la “ponka“, il caratteristico terreno del Collio, ideale per la coltivazione della vite. Io trovo fantastici i vini bianchi. Il vitigno più celebre è il Tocai Friulano ma poi ci sono il Verduzzo, la Ribolla Gialla e la Malvasia Istriana, e il rarissimo Picolit. Ma anche i rossi Cabernet franc, il Merlot e lo Schioppettino.

Ragione n.4 Il Prosciutto:

Nella splendida cornice del delizioso borgo di San Daniele, Aria di Festa è una delle manifestazioni primaverili più suggestive a cui abbia partecipato. Ma durante tutto l’anno è possibile visitare i prosciuttifici della zona e gustare il famoso prosciutto. La lavorazione del Prosciutto di San Daniele richiede numerosi e delicati passaggi ancora oggi eseguiti secondo l’antica tradizione artigianale. Il vero segreto della lavorazione è però il microclima del Sandanielese, dato dall’incontro delle correnti fresche provenienti dalle Alpi con le correnti umide dell’Adriatico. Un prodotto rigorosamente tutto Made in Italy. Ma c’è anche un altro prosciutto d’eccellenza in Friuli ed è quello di Sauris, che deve la sua unicità al particolare metodo di affumicatura, effettuato bruciando legno di faggio dei boschi locali.

Ragione n.5 I caffè e l’eleganza mitteleuropea di Trieste:

Trieste profuma di caffè. Senza senza i suoi storici e famosi caffè, non sarebbe la stessa, luogo d’incontro di artisti e scrittori nel passato come oggi. Quella della torrefazione è un’industria molto importante e florida della città. Ci sono diversi caffè storici che organizzano anche visite e degustazioni. La sobria raffinatezza di questa città si condensa nella splendida Piazza Unità affacciata sul mare. Ha incantato e ispirato importanti scrittori come Rainer Maria Rilke, James Joyce, Italo Svevo. Città unica che è stata icona di poesia, tolleranza e multiculturalismo mittleuropeo.

Ragione n.6 Udine la “Serenissima”:

Con quelle piazzette che sembrano un “campiello” la città ha un fascino quasi veneziano. Da Piazza Libertà, “la più bella piazza veneziana sulla terraferma”, a Piazza Matteotti (o delle Erbe), che, tutta contornata da portici, sembra un salotto a cielo aperto, osserverete la carrellata di antichi e colorati palazzi che annunciano lo spirito di Udine. Sulle vie del centro si affacciano curati negozi e botteghe d’artigianato (l’arte orafa riprende gli stilemi longobardi), caffè e osterie storiche: una città a misura d’uomo!

Ragione n.7 Le Lagune:

La laguna è la meravigliosa cornice naturale in cui sorge Grado. Un piccolo mondo fantastico che offre uno scenario ricchissimo di colori, tra il verde della rigogliosa vegetazione e il blu del mare Adriatico. La laguna è una zona feconda di essenze arboree, e in particolare di tamerici, olmi, pioppi, ginepri e pini, mentre la fauna presenta una cospicua varietà di volatili, tra i quali gabbiani, aironi cinerini, germani reali, rondini di mare. Una gita in barca è il modo migliore per scoprirne a fondo le meraviglie.

+ 1 Fuori dal Turismo di massa:

Ultima ma non ultima motivazione. Pur essendo una Regione che ha veramente tantissimo da offrire è quasi sconosciuta al turismo italiano. Mi dispiace dirlo ma credo che sia una delle regioni italiane più sottovalutate. Quindi se siete alla ricerca di pace e tranquillità e volete visitare con tutta calma è il posto giusto!

La Romania è strana! Non in senso negativo, ma proprio nel senso più profondo del termine… nel senso di una suggestione particolare, difficile da descrivere tra il surreale e il malinconico. Arcano! Un posto dove le cicogne fanno ancora il nido sui pali della luce sopra un grumo di cavi lungo le strade ma ci sono anche i locali di tendenza nella capitale.

Un Paese in bilico tra le sue contraddizioni: l’antichità e il passato sovietico; i carretti trainati da cavalli e le città con tanta voglia di proiettarsi verso il futuro. A Bucarest convivono spalla a spalla palazzi e intere vie curati e restaurati di fresco con quelli sgualciti e decadenti. Le città sulla costa del Mar Nero sono in pieno fermento costruttivo, come se fossero ancora nei nostri anni ’60-’70, eppure un gioiello architettonico come il Casinò di Costanza giace in rovina.

Viaggiare in auto.

Per questo viaggio abbiamo optato per la soluzione Fly&Drive. L’itinerario era abbastanza lungo (circa 800 km) e dunque era la soluzione migliore per spostarsi velocemente da una località all’altra. Le strade non sono tutte in ottime condizioni ma non sono nemmeno così tragiche. Partendo da Bucarest abbiamo attraversato paesini color pastello in stile sassone con le case srotolate lungo la via principale, bordeggiati da vigne, colture di granturco e boschi. Ci siamo fermati in luoghi inaspettatamente interessanti ammirando la bellezza rurale della Transilvania e siamo riusciti a raggiungere con comodità la Chiesa fortificata di Biertan.

Sulla costa del Mar Nero abbiamo utilizzato i mezzi pubblici e le immancabili e pittoresche marshrutki! Quest’ultima è un’esperienza di sovietica memoria che consiglio di provare.

Un itinerario fra il medioevo in Transilvania, la Valacchia e fino al Mar Nero

1) Bucarest e il Museo Architettura in legno

Bucarest è una città frizzante, si intuisce che ha voglia di cambiamento.  L’architettura è variegata. Dai palazzi dal sapore parigino a quelli di stampo sovietico (esempio sopra tutti il Palazzo del Parlamento di Nicolae Ceausescu). Ma sono presenti anche elementi bizantini come la piccola Chiesa ortodossa di Stavropoleos in stile Brâncoveanu (commistione di elementi bizantini e ottomani) situata proprio nel bel mezzo del centro storico. La città è famosa per i suoi parchi, (cosa abbastanza comune in tutte le città dell’Est). Noi abbiamo visitato il Parcul Cișmigiu, il più antico di Bucarest. Ha alcuni angolini davvero suggestivi con ponticelli che si specchiano nel lago e il chioschi per l’orchestra.

Sulla sponda del lago Herestreau sorge il Muzuel National al Satului “Dimitrie Gusti”. Un vero viaggio indietro nel tempo nella Romania rurale con edifici in legno originali trasportati da varie parti del Paese per documentare la vita della campagna rumena.

2) Brașov – Busteni- Sinaia

Brașov è una cittadina immersa nei Carpazi il cui centro è visitabile comodamente in una mezza giornata.  Il sito conobbe grande sviluppo in epoca medievale grazie all’insediamento di artigiani e mercanti sassoni chiamati a sviluppare il territorio da Re Geza intorno alla metà del 1100. L’influenza tedesca è perfettamente visibile nello stile architettonico della città. Una delle cose che colpiscono e vengono ricordate con simpatia è la scritta Brașov, in stile holliwoodiano sulla cima del monte Tampa. Da non perdere l’imponente Chiesa Nera di epoca tardo gotica.

Non lontano da Brașov si trovano Sinaia e il paesino di Bușteni con le sue viste mozzafiato sulla catena montuosa dei Carpazi. E’ una piccola località turistica di montagna, prendendo la funivia si può raggiungere l’altopiano dei monti Bucegi dove si trova la Sfinge di Bucegi – formazione rocciosa che ricorda una sfinge – e si possono fare deliziosi trekking. Ma anche il paesino in sé merita una visita, camminando per le sue vie si possono scorgere casette di legno e di pietra e il bel Castello di Cantacuzino. Sinaia invece è rinomata per il Castello di Peles. Avvolto da montagne verdissime ricorda un palazzo alpino tedesco con le tradizionali trame lignee delle case a graticcio.

3) Sighișoara – comprare un mazzolino di fiori da una zingara ai piedi della Scala degli Studiosi

Anche Sighișoara è una città antica. La cittadella medievale fortificata con le torri dedicate alle varie corporazioni, con le sue stradine acciottolate e le botteghe artigiane è arroccata sulla collina. Ha origini che risalgono al XII sec quando anche qui giunsero i sassoni chiamati dai Re d’Ungheria. Ancora oggi i sassoni costituiscono una importante minoranza in Transilvania. La chiesa gotica sulla collina si raggiunge attraverso una lunga scalinata con una copertura in legno annerita dal tempo, la Scala degli Studiosi, ed è affiancata da uno dei più suggestivi cimiteri che io abbia mai visto. Si dipana tutto un po’ in pendenza lungo la collina tra tombe ricoperte dall’edera, vialetti acciottolati e alberi secolari.

4) Sibiu

Indovinate un pò chi si era insediato qui? I sassoni. Lo si nota dall’aspetto delle case, dalla lingua che parla la gente, dai nomi sulle targhe sugli edifici. Ma qui vivono anche minoranze ungheresi insieme ai rumeni e ai gitani. Un crocevia di popoli e culture ciascuno con la propria religione e le proprie chiese, la propria lingua e tradizioni. Un patrimonio culturale eccezionale. Sibiu è una città medievale degna del mondo stravagante che brulica nei margini miniati nei manoscritti (le Droleries o Babewyn o Verkehrte Welt).

Qui le case hanno occhi e i ponti hanno orecchi! Le alte falde dei tetti hanno abbaini stretti che ricordano occhi maliziosi e curiosi che spiano i passanti. A volte è un po’ inquietante! Il Ponte delle Bugie si dice che abbia orecchie e che possa svelare le menzogne pronunciate su di esso (in realtà si tratta di un ponticello in ghisa di finissima manifattura). Tutto ciò mi ha ricordato il mondo “alla rovescia” delle favole letterarie che fiorì verso la fine del 1100 un po’ ovunque in Europa e che esplose sui bordi dei libri medievali. Storie impossibili un pò come un orso che insegue un falcone in cielo o un corvo che pesca maiali in un ruscello.

E poi quando ti ostini a cercare medioevo ovunque ti capita anche di trovare un Abbazia Cistercense in un minuscolo comune di 800 anime. Il Monastero Cistercense di Cârța, fu costruito dai monaci di Igriș intorno al 1205. Ma i primi edifici erano in legno e non sono pervenuti, nel 1230 iniziò la vera propria costruzione del monastero conclusasi nel 1320. Attaccato da tatari e turchi è esempio di gotico primitivo in Transilvania.

La chiesa del monastero era una basilica a tre navate con un grande rosone in facciata, portale strombato, transetto e coro poligonale. Purtroppo di questa prima costruzione si è conservato molto poco. Un sentierino lastricato che attraversa un piccolo cimitero conduce a quella che attualmente è la chiesa ricavata nel coro e nell’abside della ex basilica. Le ricerche archeologiche hanno portato alla luce tombe funerarie datate tra il XIII e il XIV secolo.

5) Constanța – Mamaia

La cosa che più mi ha fatto male è stata vedere l’agonia del Casinò di Costanza, il gioiello liberty che sorge su una terrazza affacciata sulle acque scure del Mar Nero.  Vittima della selvaggia speculazione edilizia e dell’incuria degli anni 90. Purtroppo io non sono riuscita a visitare gli interni, ma i ragazzi di Sotto la Polvere hanno avuto questa fortuna e sul loro blog troverete un sacco di foto bellissime che vi faranno innamorare. Per fortuna, pare che negli ultimi anni qualcosa si stia muovendo in senso positivo nel recupero della struttura. Un progetto europeo e l’attività di un gruppo di giovani architetti rumeni con sede a Costanza, hanno permesso agli abitanti di ricominciare a frequentare il Casinò. Ci sono concerti e serate di lettura.

Mamaia è un po’ una Rimini sul Mar Nero. File di hotel e residence, lounge bar sulla spiaggia, ristoranti di pesce e locali più o meno informali ( e più o meno kitch) ma sicuramente super turistici. A noi interessava soprattutto passare qualche giorno in una spiaggia il più possibile isolata, così abbiamo scelto un hotel distante dal centro cittadino. A circa un kilometro c’era una bella spiaggia con un chioschetto che mandava a ripetizione una compilation di capolavori pop rivisitati in stile bossanova!  E’ stata la colonna sonora delle nostra giornate in spiaggia sotto il tiepido sole di fine estate e la brezza sottile.

A Yur’ev Pol’skij c’è un tempietto di pietra bianchissima nel bel mezzo della campagna, con una grande cupola nera e ricoperto di strampalate creature. Credo che siano in pochi anche i russi a conoscerlo e i turisti ancora meno. Yur’ev Pol’skij è un minuscolo agglomerato di sgangherate casette sulla strada tra Suzdal e Serghiev Posad. Fondata dal principe Yuri Dolgorukij nel 1152, custodisce questa perla dell’architettura russa medievale, il Georgevskij Cobor.

Trovarla non è difficile visto che ci saranno sì e no quattro strade! Come tanti paesini della Russia rurale l’atmosfera di Yur’ev è come sospesa tra un romantico fascino campestre e una sensazione di inquietudine, di isolamento dal mondo e di abbandono quasi inselvatichito. Stradine sterrate o male asfaltate, aiuole verdi, casette di legno, innumerevoli chiese e monasteri. Eppure prima che i Mongoli lo cancellassero dalla storia era un centro piuttosto importante.

Parcheggiamo lungo la strada asfaltata che costeggia da un lato un parco e dall’altra le mura in mattoni e legno del Mikhaylo Arkhangel’skiy Monastyr’. Il territorio della chiesetta è delimitato da una bassa recinzione in ferro e un sentiero lastricato le gira tutto intorno.

Non c’era anima viva, a parte noi e un gruppetto di ricercatori e restauratori. Quella mattina il cielo era di un blu talmente profondo che faceva quasi male agli occhi, l’aria tersa e cristallina. I Monumenti in pietra bianca di Vladimir e Suzdal sono fatti della stessa pietra calcarea. Una specie di marchio di fabbrica. Miracolosamente scampati all’invasione mongola, oggi sono patrimonio UNESCO. Le pareti sono ricoperte di immagini bizzarre di animali, uccelli, piante: leoni con code “fiorenti”, oche con il collo intrecciato, fauci, viticci, leoni e sirene. 

Il bestiario slavo affonda le sue radici nel substrato iranico della cultura Scita. Ad esempio la figura dell’uccello, da sempre simbolo del ritorno della primavera ma anche, tramutato in uccello di fuoco, simbolo del sole.

Leoni e sirene scolpite si ritrovano anche nelle isbe di legno. Parte di questo bestiario potrebbe essere giunto nell’arte russa del XII sec attraverso l’Occidente, ad opera di artisti renani giunti a lavorare a Vladimir. Ma qui non si tratta di copia quanto piuttosto di una reinterpretazione di antiche suggestioni pagane in quelle terre di recente cristianizzazione.

Tra i bassorilievi trova posto anche il nome del maestro Bakun, il principale scultore della cattedrale, che guidò la squadra di intagliatori.

Sembra un gigantesco rebus di pietra, silenziosa come il silenzio che la circonda.

La Prospettiva Nevskij è un lungo corso che costituisce il cuore di San Pietroburgo. Il nome “Prospettiva” in realtà è sbagliato perché si tratta della traduzione letterale in italiano del termine russo “Prospekt” che significa corso. Una via elegante e maestosa che racchiude perle  di stili diversi: Art nouveau, neoclassico, le tradizionali cupole colorate a cipolla dell’architettura russa.

«Non c’è cosa più bella del corso Neva, almeno a Pietroburgo: per essa è tutto. Di che non rifulge la strada regina della nostra metropoli? So per certo che neppure uno di questi incolori e burocratici abitanti darebbe il corso Neva per quanto oro vi è al mondo.»

Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Il corso Neva, in Racconti di Pietroburgo

Nella cartina qui sotto trovate la loro localizzazione e cliccando sul simbolino qualche informazione. Le due fermate della metropolitana più comode per raggiungerle tutte sono Gostinij Dvor e Nevskij Prospekt.

Dom Knigi

E’ la più grande libreria di San Pietroburgo, impossibile non notarla grazie alla sua singolarissima torre conica che culmina con un globo di vetro (il marchio di Singer). La traduzione letteraria è “La Casa del Libro” e non può essere altrimenti visto l’enorme spazio dedicato alla cultura nazionale e non.

All’interno non troverete solo libri in cirillico, ma anche sezioni per nazioni e libri quindi in lingua originale.

La Dom Knigi

Un edificio esisteva sulla Prospettiva Nevskij fin dal XVIII sec. Nel 1902 l’azienda manifatturiera tedesca Singer acquistò l’appezzamento di terreno. Qui costruì la sede generale e una serie di locali destinati al noleggio. Non tutti erano favorevoli al progetto, tuttavia lo zar Nicola II diede il permesso alla costruzione del nuovo edificio in stile Art Nouveau. La costruzione richiese due anni e il progetto era dell’architetto  P. Yu. Suzor.

Le innovazioni

Per la prima volta in Russia si utilizzava una struttura in ferro e mattoni che permetteva di costruire enormi finestre. Un’altra soluzione innovativa adottata riguarda le grondaie. Per non sovraccaricare la facciata dell’edificio con strutture inutili, l’architetto le ha “nascoste” e l’acqua piovana passa attraverso tubi di rame all’interno delle pareti. Il sistema di ventilazione e di climatizzazione era il più moderno per l’inizio del XX secolo.

La facciata dell’edificio presenta una ricca decorazione. La torre angolare dell’edificio è coronata da un globo di vetro che serviva da pubblicità per la compagnia Singer, era illuminata dall’interno con l’elettricità, e dall’esterno era avvolta dalle parole “Singer and Co.”.

Nel gruppo scultoreo al di sotto ritroviamo due Valchirie sulla prua di una nave. Una regge un fuso e una macchina da cucire – simboli dell’industria leggera, l’altro – un arpione, che simboleggia la cantieristica e l’industria pesante. La compagnia Singer non solo vendeva macchine da cucire in tutta la Russia (fu la prima a venderle a credito), ma eseguì anche grossi ordini per cucire uniformi militari per l’esercito russo.

L’attico era occupato dalla filiale russa della compagnia “Singer”. Dopo la Rivoluzione i due piani inferiori divennero la sede della Dom Kingi. Durante la guerra la Dom Knigi continuò a lavorare nonostante i bombardamenti avessero distrutto le vetrate. Dopo la guerra, l’edificio subì un’importante ristrutturazione e il 14 novembre 1948 la Dom Knigi aprì nuovamente le porte ai lettori.

Dal dopoguerra

Negli anni del dopoguerra, migliorò costantemente i suoi metodi di lavoro e si  guadagnò la reputazione di innovatore. Nel 1949, per la prima volta nella libreria sulla Prospettiva Nevskij organizzarono un grande salone dei libri che diventerà tradizione e attrarrà migliaia di visitatori di anno in anno.

La Dom Knigi è sempre stata per i cittadini non solo un negozio, ma anche un importante centro culturale. E’ diventata l’iniziatore e l’organizzatore di incontri con gli autori, e regolarmente ha organizzato serate di poesia. Una curiosità: la scala centrale è in marmo di Carrara, ma inizialmente solo due rampe erano in marmo di Carrara.

Cinema Aurora

Questa perla della Prospettiva Nevskij apre le porte nel 1913. Il nome originario era “Picadilly”. Un cinema dalle dimensioni enormi 800 posti, per fare un paragone il cinema Gomon aperto a Parigi nel 1913aveva una capienza di 380 spettatori. Qui all’epoca del cinema muto lavorò Dmitrij Shostakovic. I film erano accompagnati non solo dal pianista ma addirittura da un’intera orchestra. Vladimir Nabokov era un frequente spettatore del cinema. Sarà nel 1932 che cambierà il suo nome in “Aurora”.

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Gli spettacoli si fermarono e la gente di Leningrado smise di frequentare il cinema tanto amato soltanto nel 1942, nel pieno della guerra. La cinematografia di tutto il mondo è approdata qui, e ciò ha fatto del cinema Aurora un luogo in cui i principali maestri del cinema considerano un onore presentare le loro opere. Nel corso di questo secolo di vita il cinema ha subito diversi restauri e ammodernamenti al passo con i tempi.

Emporio Gastronomico Eliseev

Peter Yeliseyev, il giardiniere del conte Sheremetev, fu il fondatore di questo emporio. La leggenda narra che per la notte di Natale del 1812 il giardiniere riuscì ad offrire al suo padrone e ai suoi ospiti delle fragole fresche. Alla domanda del conte su come potesse ringraziarlo per un tale miracolo Yeliseyev chiese la sua libertà. Il conte accettò e lo liberò donandogli 100 rubli. Per quei tempi una somma considerevole.

L’ex servo aveva non solo il talento di un giardiniere, ma anche una straordinaria capacità commerciale e divenne ben presto famoso in tutta Pietroburgo grazie alla sua capacità di sorprendere i clienti più esigenti. Qualche decennio più tardi l’attuale sede divenne centro di gestione di tutte le attività dell’emporio Eliseev.  Gli affari prosperarono e  presto i fratelli divennero fornitori della corte di Sua Maestà Imperiale. Intrattenevano rapporti commerciali con Inghilterra, Germania, Italia.

Durante la rivoluzione, gli Eliseev lasciarono il paese. Secondo alcune voci, i padroni avevano murato parte dei tesori nel negozio sulla Prospettiva Nevskij e in molti li cercarono. Nei primi giorni del governo sovietico, il negozio è stato nazionalizzato e i prodotti venduti.

L’emporio oggi

Ancora oggi non si tratta solo di una gastronomia, ma c’è anche ristorante, un teatro e un grande salotto per i ricevimenti. Al secondo piano dell’edificio si trova un elegante ristorante dagli interni molto eleganti in stile inizio XX secolo, il cui fiore all’occhiello è la cucina molecolare. Nella caffetteria all’interno del negozio si possono gustare miscele di caffè da tutto il mondo, deliziosi tè e dessert originali con ingredienti provenienti da tutto il mondo. L’emporio è sempre stato famoso per una vasta gamma di pesce e diversi tipi di caviale, il caviale di storione nero proveniente da Astrakhan e le rare uova di trota arcobaleno.

L’edificio si trova all’angolo tra la Prospettiva Nevsky e la Malaya Sadovaya, il progetto è di Gabriel Baranovsky in stile Art Nouveau. Si distingue nettamente dagli altri edifici adiacenti in stile classico per le sue linee arrotondate, la mescolanza di vetro, granito e metallo. La facciata presenta un’enorme vetrata e statue allegoriche di “Industria”, “Commercio”, “Arte” e “Scienza” dello scultore Adamson. Le bambole in movimento nella finestra riproducono scene dell’opera The Nutcracker.

Caffè Abrikosv

La storia di questo simbolo della Prospettiva Nevskij è simile a quella dell’emporio Eliseev. La fabbrica di dolciumi venne alla luce alla fine del XVIII secolo da un servo della gleba di nome Stepan Nikolaev, anche lui al servizio di nobili possidenti. Egli diventò celebre grazie alle sue gelatine di frutta che preparava con le mele del giardino signorile. Ben presto la sua fama giunse fino a Mosca e con i soldi ricavati comprò la libertà per se stesso e per la famiglia.

Ottenne il cognome di Obrekosov, che poi si trasformò nel rinomato cognome Abrikosov. Da una piccola attività a conduzione familiare si trasformò in un’intera rete di pasticcerie, sale da e da caffè fino a ricevere l’importante riconoscimento di Fornitore di Corte di Sua Maestà Imperiale. Nel commercio del tè iniziò a fare concorrenza anche alla famiglia Perlov di Mosca. Ideò un nuovo tipo di trasporto del tè dalla Cina, via mare invece che via terra attraverso la Siberia, più economico e più veloce.

L’insalta russa e il caviale da Abrikosov

Il locale oggi

All’inizio del XX° secolo, la pasticceria Abrikosov era particolarmente popolare a San Pietroburgo. Il locale che venne costruito al civico 40 della Nevskij Prospekt risale al 1906 e diventò ben presto una leggenda della città. Lo storico interno in stile cinese è rimasto immutato ed è ancora possibile rivivere le atmosfere di inizio ‘900. Gli interni sono meravigliosi. Caldi e accoglienti: legno, specchi, stampe cinesi. Nella caffetteria è possibile gustare ogni sorta di leccornie per cui il marchio è diventato famoso: cioccolatini, crostate, canditi, tè e caffè.

Cattedrale di Kazan

Proprio di fronte alla Dom Knigi si trova una delle più belle chiese di San Pietroburgo: la cattedrale di Kazan. Circondata da un colonnato” vaticano” ricorda un po’ la cattedrale di San Pietro a Roma. Realizzata tra il 1801 e il 1811  per custodire l’icona miracolosa di Nostra Signora di Kazan risalente al XIII secolo, una delle icone più venerate dai russi. Proveniente da Costantinopoli arrivò prima a Kazan, dove sparì in seguito alle invasioni tatare prima di raggiungere San Pietroburgo.

La cattedrale di Kazan

La Cattedrale di Kazan è stata la prima chiesa in Russia, costruita da un architetto russo in uno stile puramente europeo. I materiali usati per la sua costruzione sono tutti provenienti dalla Russia. A proposito delle sculture ritroviamo San Vladimir, colui che convertì la Rus’ al cristianesimo. Regge una spada nella mano sinistra e una croce nella mano destra, calpestando un altare pagano. Alessandro Nevskij, che difese la terra russa e la fede ortodossa dai cavalieri cattolici tedeschi e svedesi. Ai suoi piedi è una spada con un leone, l’emblema della Svezia. Lo scudo russo si appoggia su di esso.

La cattedrale di Kazan (particolare)

Le statue di due importanti generali delle guerre napoleoniche: Kutuzov e Barclay de Tolly. Sconfitto da Napoleone ad Austerliz, sarà alla fine Kutuzov a trionfare sui francesi utilizzando la tattica di disimpegno e della terra bruciata che gli permise di annientare le truppe avverse senza uno scontro diretto.

Cattedrale del Salvatore sul Sangue Versato

A pochi passi dalla Prospettiva Nevskij il 1 marzo del 1881 sul canale di Caterina, ora noto come “Canale Griboedov” venne assassinato l’imperatore Alessandro II. Esattamente sul luogo dell’omicidio sorge la “Chiesa della Resurrezione” nota a tutti come “Chiesa del Salvatore sul sangue versato. A volerla in memoria del sovrano furono sia il suo successore, Alessandro III che la Duma.

riflessi nel canale gelato

Il nuovo sovrano volle che questo tempio in memoria del padre, avesse le caratteristiche dell’architettura russa sui modelli di Mosca e Yaroslavl. Ci vollero ben due concorsi per soddisfare l’imperatore con il progetto. Parte del ponte e del canale macchiati del sangue dello Zar-Martire sono ancora conservati nella parte occidentale del tempio.

Dopo la Rivoluzione l’edificio rischiò di essere raso al suolo più volte, fu saccheggiato e utilizzato come deposito prima per la raccolta di verdure e poi di decorazioni teatrali. Gran parte degli interni vennero distrutti e solo nel 1970 si decise finalmente di iniziare con i lavori di restauro. Nel 1997 mostrò i suoi capolavori ai visitatori.

La chiesa del Salvatore sul Sangue Versato in una gelida sera d’inverno

All’esterno, nelle decorazioni sono commemorati i successi della Russia durante il regno di Alessandro II. Fu utilizzata  una grande varietà di materiali di finitura: mattoni, marmo, granito, smalto, rame dorato e mosaico. L’interno è spettacolare, interamente rivestito di mosaici che ricoprono un’area di 7065 metri quadrati. Si è letteralmente inondati dal blu e dall’oro dei mosaici.

L’azzurro e l’oro dei mosaici della Chiesa

Tutte queste bellezze della Prospettiva Nevskij si trovano tra l’Ammiragliato sulla Neva da un lato e il Ponte Anchikov dall’altro. L’Ammiragliato costituisce insieme all’Ermitage ed alla splendida piazza di fronte un altro importante centro della città.

Questa è la prima di una serie di pillole sul Friuli Venezia Giulia che voglio scrivere. Perché voglio parlarvi di questa regione? E’ una regione a cui sono molto legata perché una parte della mia famiglia vive lì e quindi la conosco abbastanza bene. E’ una regione ricca di testimonianze longobarde!Ma non è solo questo il motivo.

E’ una regione bellissima, ricca di storia, di eccellenze artistiche, di varietà climatico-paesaggistiche (si va dalla montagna al mare, alle colline con i vigneti). Purtroppo spesso viene poco valorizzata e pubblicizzata. Però in tutto questo c’è un lato positivo.

E’ ancora lontana dalle frotte di turisti che animano città come Roma, la vicina Venezia o Firenze. Per questo motivo ho deciso di organizzare un primo minitour alla scoperta di alcune delle sue bellezze, ovviamente con un occhio di riguardo per quelle medievali. Potete trovare la descrizione dell’itinerario con le date qui

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Forum Iulii

Nel frattempo ogni tanto vi parlerò di qualche perla di questa regione. Il nostro viaggio inizia da Cividale del Friuli. L’antica Forum Iulii, da cui deriva il nome Friuli. Città ricca di testimonianze longobarde perchè fu luogo del primo insediamento di questo popolo in Italia. Fu edificata ai piedi delle Alpi Giulie lungo le rive del fiume Natisone, in una posizione ideale per controllare il territorio circostante. Era un castrum, ovvero una cittadella fortificata.

Il Ponte del Diavolo congiunge le due sponde su cui sorge la città. Nel 568 d.C. divenne sede del primo ducato longobardo in Italia, come ci racconta il cronista dei longobardi, il cividalese Paolo Diacono. In epoca medievale, dopo un lungo periodo di dominazione veneziana, fu importante centro politico economico ed ecclesiastico al tempo in cui vi si stabilì la sede del Patriarcato di Aquileia.

Il centro storico è piccolino ma pittoresco e suggestivo. Popolato di importanti testimonianze longobarde e non solo. Il Museo Archeologico contiene preziosi reperti di epoca romana, paleocristiana, altomedioevale, romanica e gotica. La sua collezione di monete longobarde è considerata la seconda al mondo per la qualità e il numero dei pezzi. Il Museo Cristiano del Duomo custodisce il meraviglioso altare del Duca Ratchis.

Ci sono poi Il Battistero di Callisto; l’ipogeo celtico; la piccola chiesa dei Santi Pietro e Paolo; la chiesa di San Francesco; la Pala di Pellegrino II opera davvero pregevole per tanti motivi tra cui l’utilizzo precoce della tecnica tipografica delle sue iscrizioni, e il bellissimo Crocifisso custoditi all’interno del Duomo. E poi c’è il mio amato Tempietto Longobardo.

Il tempietto longobardo

Piccolo oratorio situato all’interno del Monastero di Santa Maria in Valle che si affaccia sul verde- azzurro delle rive del Natisone. E’ una straordinaria testimonianza dell’architettura altomedievale. Originariamente doveva essere una cappella palatina, la cappella della residenza del rappresentante del re longobardo la cosiddetta gastaldaga.

Si tratta di un piccolo oratorio in cui però venero adottate soluzioni architettoniche che tendono a dilatare lo spazio e dare slancio verticale. E’ come uno scrigno dalla semplice linearità esterna che racchiude un capolavoro. In questo senso mi ricorda la cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova. Tra la fine del IX e l’inizio del X sec l’area della gastaldaga venne donata al convento benedettino femminile e con essa anche la cappella. Al suo interno si sono conservate decorazioni e statue in stucco dell’VIII sec.

Al piccolo sacello si accede attraverso una porta posta nel lato meridionale direttamente nel presbiterio (la parte della chiesa riservata al clero officiante). L’ambiente è suddiviso in due corpi architettonici distinti: il presbiterio e l’aula. Il primo è separato dal secondo da una recinzione con due esili colonnine che sorreggono un architrave lignea. I capitelli di queste colonne sono probabilmente di origine antica.

L’aula ha nicchie con arconi alle pareti che sottolineano lo slancio verticale della struttura. La parete più articolata è quella occidentale, dove si trovava anticamente anche l’ingresso principale al tempietto. L’architrave della porta è in stucco e appena sopra c’è un grande arco delimitato da due ghiere floreali. La cosa che cattura immediatamente lo sguardo entrando nel piccolo oratorio sono le sei figure di sante e martiri proprio sopra questo arco.

La serie di figure femminili

Queste figure sono alte circa 2 metri e mostrano relazioni con la statuaria omayyade. Forse dovuta alla presenza di maestranze bizantine con influenze islamiche. Costantinopoli, ai confini di due mondi quello classico greco-romano e quello orientale, sviluppò due espressioni artistiche differenti. Da un lato reminiscenze dell’arte naturalistica e delicata dei greci, dall’altra la rigidità e l’austerità dell’arte asiatica. Le lunghe file di santi con grandi occhi scuri, in posizione rigidamente eretta e solenne sono espressione di una tendenza alla preferenza per un’arte ieratica tipica dell’Oriente.

Al centro si trova una finestra arcata decorata con motivi ad intreccio internamente, ed esternamente a palmette e fiori di loto. Il complesso delle sante è incorniciato da fregi orizzontali decorati con stelle o rosette ad otto petali.

Gli affreschi

Gli affreschi in gran parte perduti meritano attenzione. Nella lunetta sopra il portale principale è rappresentato Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele. Interessanti sono le figure di sei santi. Soltanto una di queste figure rappresenta un ecclesiastico.

Tutte le altre sono santi guerrieri. E questo non può stupire perché il periodo in cui venne eretto il tempietto, era precario per il regno. Quindi particolare importanza venne riconosciuta ai martiri militari che dovevano intercedere presso Dio. La forma ovale dei loro volti è finemente modellata.

Le figure tutte uguali sembrano ripetersi come matrici. I grandi occhi aperti e fissi , la testa circondata da un nimbo giallo scuro, le sopracciglia tendenti ad unirsi sopra la radice del naso sottile. I modelli sono chiaramente bizantini.

Le testimonianze longobarde in Friuli sono molte ma il tempietto è sicuramente una delle più significative.

Non solo arte

Cividale è famosa anche per una golosità molto particolare: la gubana. Dolce friulano nato proprio nelle valli del Natisone, simbolo di queste valli e di Cividale. Un dolce che ha un legame con la Slovenia. Il termine: “guba”, da cui deriva in sloveno significa “piega”, probabilmente per indicare la forma a torciglione della gubana. Già in epoca romana esisteva l’usanza di farcire il pane con frutta e miele.

Tradizione che perdurò anche nel medioevo e nel rinascimento. Un dolce simile fu servito a Papa Gregorio XII durante la sua visita a Cividale nel 1409.  Veniva donata per augurare prosperità e ricchezza, e per questo immancabile durante i banchetti di nozze.

Io vi consiglio di provare quella prodotta dalla pasticceria Vogrig che si trova appena fuori dal centro cittadino.

La Gubana dolce tipico di Cividale

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